martedì 22 maggio 2012

Il giorno di dolore che uno ha



Salvatore Bua ha aspettato sei mesi prima di abbandonarsi alla disperazione. Ha preso un filo elettrico, l’ha legato alla trave e ha fatto un passo nel vuoto. Sei mesi di delusioni. Sei mesi di speranze disattese. Sei mesi da quando aveva perso il lavoro. Salvatore Bua aveva 3 figli e viveva a Gravina di Catania. Era un muratore, aveva lavorato anche in Svizzera. Lo ha trovato la moglie, appeso al vuoto, oramai senza vita. Salvatore Bua non ce l’ha fatta. Non ha resistito alla vita sporcata dalle delusioni, a quella dignità calpestata davanti ai propri figli. Salvatore Bua è l’ultimo di una lunga serie di storie tristi, di uomini che hanno mollato le redini e hanno deciso di arrendersi alla vita. Nessuno lo giustifica e nessuno gli dà colpa. Salvatore Bua ha preso una decisione. Nessuno potrà mai arrivare a capire il grido muto di questi lavoratori immensi e deboli, nessuno riuscirà a comprendere le ragioni per cui si fa strada nelle loro anime l’abbandono.
Se solo avesse saputo. Se solo avesse aspettato ancora qualche ora. Il telefono a casa di Salvatore Bua è squillato, all’improvviso, scuotendo il silenzio di morte. Se solo avesse saputo. Lì, attaccato a quel telefono c’era la speranza, c’era una nuova proposta di lavoro, c’era la ruota che tornava a girare. La ruota che tornava a girare. Il vento in poppa, che prima o poi arriva. Salvatore Bua non ha avuto la forza di aspettare, e, ora, fa rabbia raccontare il suo destino. Questa storia, però, potrà essere raccontata a tutti coloro che ora, come uomini e come mortali, si sento vinti dalla vita. Aspettate. Mio Dio, aspettate. Perché la ruota tornerà a girare, il vento soffierà sulle nostre vele, il sole tornerà a battere. Aspettate. Perché la notte, prima o poi, passerà.

Raffaele Nappi

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