lunedì 23 luglio 2012

L'insostenibile leggerezza dei libri bianchi

"Sospedi tutto, annulla tutti gli appuntamenti. voglio restare solo."
"Ma come, signore? E la riunione con gli autori?"
"Ti ho detto che voglio restare solo."
Dicono che i modi bruschi siano derivati dal carattere del potere, e forse è così. Quel giorno, quel signore che di mestiere faceva il direttore, approfittò di tutta l'autorità che la sua posizione gli dava per essere lasciato in pace. Certo, non era facile circondarsi del silenzio in un ambiente come quello. Tra telefonate, giornali che svolazzavano, appuntamenti con tutti a tutte le ore. Il silenzio era una chimera da quelle parti.
Quel giorno, invece, silenzio fu. Il direttore volle cacciare tutti dall'ufficio, niente e nessuno doveva distrurbarlo. La sua sedia dondolava avanti e indietro, così come l'anima di quel sognatore. Era deciso; sì, quell'idea folle che gli era apparsa come un bagliore latteo andava sviluppata. Punto.
Tutti gli avrebbero remato contro; gli amici, convinti che fosse stato colpito da una malattia istantanea, i colleghi, rafforzati nell'animo di aver convissuto per anni con un estraneo, i parenti, disperati per quella mossa incredibilmente fallace. Gli imprenditori, quelli, avrebbero riso e festeggiato, una volta scoperta la novità. Un suicidio, niente di più, niente di meno. Il direttore, però, era deciso.
 E quella notte i suoi occhi non si chiusero nemmeno per un istante; il cervello era in bambola, scosso dalle prospettive. La moglie, rinchiusa nelle sue ansie, sfrenava il pensiero in libere fantasie astrali: "Si comporta in maniera strana, c'è qualcun'altra, di sicuro se la sta spassando con qualche sgualdrina in ufficio". Il povero direttore, più scorbutico del solito, non faceva nulla per smentire quei sospetti. Quando la notte si trasformò in alba, il direttore aveva già pianificato l'intera giornata. Quel 13 settembre, infatti, ci fu una riunione alle 11 in punto nella sala principale dell'edificio.
 Gli storici non dimenticarono quel momento. Il direttore parlò forte e chiaro davanti al consiglio di redazione; aleggiavano nell'aria sbuffi, borbottii. Il progetto era fallimentare. Niente da dire. Ebbene, il direttore, come ogni folle che tenta le sue imprese, trovò la buona sorte dalla sua parte. L'editore approvò, il direttore svenne. Quella casa editrice, ora stranamente guidata da una coppia formata da un direttore pazzo e un editore incredibilmente lucido nel dargli autonomia, stava per mettere giù l'idea che avrebbe rivoluzionato il secolo. In pochi mesi, giusto il tempo di stampare le copie, la filiera del libro si ritrovò sottosopra. Mucchi di libri bianchi si aggiravano per le città; completamente bianchi, quasi nulli oseremmo dire. Non un nome, nè un titolo. Le copertine erano tutte identiche. Bianco, che più nianco non si può.
E non immaginate cosa accadde quando il direttore, con l'appoggio dell'editore, ottenne il permesso per aprire la prima libreria, oramai rinnovata del tutto. Mura bianche si confondevano con colonne di libri bianchi, a guardarli bene non si sarebbero nemmeno distinti dal soffitto, bianco pure lui. Le persone accolsero con orrore e simpatia la novità. I membri del cda stavano già esultando, per modo di dire; la casa editrice era in perdita ma la ragione, quella, ce l'avevano ancora loro. Avevano avuto ragione, non c'è che dire.
 E invece, dopo un primo momento, fu la curiosità a prevalere sull'orrore. Quel senso di spaesamento cullava i lettori, li avvolgeva come coperta calda. E poi la lettura. E chi lo avrebbe detto. Senza titoli, senza quarte di copertina, bandelle, recensioni, critiche, controcritiche, premi, critiche ai premi, premi alle critiche, insomma senza tutto il contorno, i lettori si immergevano solo nelle parole, quelle sì in nero tra le pagine dei libri bianchi. Passò appena un anno dallo scandalo. I libri bianchi si diffusero prima come un bicchiere d'acqua nel mare, poi come mare nel bicchiere. La lettura diventò il passatempo preferito per le classi più disparate; tutti sembravano assorti dalla bellezza delle parole.
 La critica, quella, diventò matta. Molti professori furono licenziati, altri si licenziarono di tronco. Nessuno di loro poteva sopportare quelle scene. Vi chiederete perchè. Ecco, a 5 anni dalla diffusione dei libri bianchi, il direttore contattò l'istituto di statistica nazionale per stilare una classifca dei libri più letti. Orrore! Orrore! Orrore! Sembrava quasi che la libertà si fosse impadronita del mondo; i grandi della letteratura, fino a quel momento padroni inattaccabili delle parole, furono scanzati da autori più sconosciuti, potremmo dire quasi anonimi. Di Hemingway restò solo "Addio alle armi", di Dumas solo "Il conte di Montecristo", di Calvino solo "Marcovaldo". Proust fu completamente dimenticato, per non parlare di James Joyce. "La coscienza di Zeno fu trovato e messo via da qualche vecchio professore di Università. Nessuno lo cercava più, o forse nessuno lo continuava dopo le prime 7 pagine. Fu per questo che l'idea della classifca fu immediatamente rigettata dal direttore, almeno per rispetto verso una categoria che fino ad allora si era dimostrata sempre all'altezza.
Ciò che rimase, invece, fu lo spasso con cui gli uomini e le donne si avvicinavano ai libri, il divertimento con cui li sceglievano, la rapidità con cui li gettavano, l'amore sfrenato che provavono verso quelli che leggevano fino all'ultima pagina. Sì, perchè nel nuovo mercato dei libri bianchi, nessuno poteva bluffare. Tutti erano uguali e tutti erano diversi. Il direttore, una volto morto l'editore, lo sostituì a capo della casa editrice, che intanto era diventata padrona della filiera. Quando anche lui si spense, qualche lettore anonimo andò a depositare sulla sua tomba un piccolo libro bianco, anonimo pure lui. Non sapremo mai di che libro si tratti. Qualcuno dice sia di Saramago, o forse di Isabel Allende. Qualcuno giura sia di Collodi. O forse di Dostoevskij, di Boll, di Shakespeare, di Moliere. Non lo sapremo mai. Continueremo solo a leggere i libri bianchi, persi nell'amore delle parole.

Raffaele Nappi

martedì 10 luglio 2012

L'anima di un istante


Il signor Mosotti era un uomo tutto d’un pezzo. Quando si alzava dal letto l’alba cominciava a spumeggiare; la sveglia non strillava mai perché veniva spenta un attimo prima con estrema precisione dalla sua mano decisa. La barba non gli spuntava nemmeno a pagarla; i peli sapevano che, puntualmente, sarebbero spariti prima di vedere il millimetro di lunghezza.
Al lavoro, poi, si compiva il miracolo. Il signor Mosotti, capotreno della compagnia nazionale, aveva collezionato il record di precisione nella storia strada ferrata; mai una partenza in ritardo, mai un arrivo diverso dall’orario previsto dalla tabella di marcia. All’età di 45 anni aveva ricevuto il premio come miglior macchinista dell’anno e rilasciò-senza mai pronunciare più di 5 parole per risposta-una serie di interviste per la stampa e le tv locali.

I colleghi erano intimoriti di fronte a lui, quasi come fosse un dirigente in ispezione tra i subalterni; i superiori lo trattavano come un loro pari; i dirigenti non lo deridevano. La vita di Masotti, in linea con il suo lavoro, non si era mai spostata dal binario previsto: fidanzamento-matrimonio-figli. Tutto procedeva diretto come un treno-perdonate la banalità della similitudine-verso la pensione e il tanto meritato, e programmato, riposo. Una vita già scritta, direbbe qualcuno. Ma mai prevedere il futuro. Più lo si programma più quello scivola via verso destini beffardi e meravigliosamente incomprensibili.

Quella mattina Mosotti era già nella sua cabina di servizio, nemmeno a dirlo in anticipo rispetto a tutti i suoi colleghi. Il treno era sempre lo stesso. Da città a città, da una metropoli a un’altra, salendo o scendendo verso l’orizzonte. Dritto sul sedile, concentrato sempre e solo sulla strada-nonostante si potrebbe dire la sapesse più che a memoria-Mosotti pareva un cavallo a cui fossero stati installati dei paraocchi neri, permanenti e dominatori. Era vietato rivolgergli la parola durante il lavoro, e, nel malaugurato caso in cui qualche collega scambiasse impressioni del tutto improvvise con qualche suo vicino, arrivava incombente come un tuono il richiamo del macchinista.

Quella mattina, dicevamo, Mosotti procedeva lungo i suoi binari, accompagnato dai suoi paraocchi neri. Il viaggio era quasi a metà, la distanza percorsa sforava i 300 km; ne mancavano altri 310 per giungere alla stazione d’arrivo (312km e 257 metri avrebbe suggerito il macchinista) . La concentrazione, come al solito era massima. Rallentare leggermente in curva, scaricare la potenza quando la strada-ops, i binari- è dritta. Il lungo rettilineo, quello che attraversa i gialli campi e le campagne tipiche del paesaggio di mezzo, era cominciato. Nulla potè impedirgli di vederla. Da lontano pareva una foglia. Una foglia strana. Poi, avvicinandosi, l’effetto della fata morgana si dissolveva sempre più, svelando qualcosa di vivo. La foglia si muoveva. A tratti rimaneva immobile, poi ricominciava a mostrare le ali. Le ali. Sì, era un uccello. No, non un uccello. Mosotti-con uno stupore capace di smuovergli la faccia di gesso che era abituato tenere mentre era al lavoro-si rese conto che su quel lungo rettilineo in aperta campagna, lì dove il paesaggio avvolge i binari fino a cullarlo nella sua bellezza, quando la velocità raggiungeva i 297km orari e la distanza percorsa si aggirava intorno al 302 km, lì, su quel binario di un nero quasi morto, arroventato dal sole, lì, su quel pezzo di ferro in mezzo alla natura, c’era una farfalla. Una farfalla. Bianca, macchiata di colori rossi e gialli. Una farfalla meravigliosa. La mente del signor Mosotti non riuscì a selezionare le azioni in modo razionale e ordinato. Quel che accadde, ancora oggi, non ha una logica precisa.

Con una forza vettoriale che superava tonnellate e tonnellate di trazione verso l’avanti, con un rumore di ferraglia che svegliò gli animali nei campi vicini, con un movimento deciso e fermo, il signor Mosotti frenò. E frenò così tanto da far accavallare dietro di sé, come macchinine giocattolo, i vagoni che lo seguivano. Frenò senza un messaggio di avviso ai viaggiatori, senza una comunicazione ai colleghi che parlavano sottovoce alle sue spalle. Come nelle storie a lieto fine, quell’ammasso di ferro si arrestò a pochi centimetri dall’animale. La farfalla, immobile, restò qualche secondo ancora nel suo rifugio mortale, poi, leggiadra, volò via.

Il signor Mosotti non ebbe mai una spiegazione valida per il suo comportamento. La compagnia statale lo mise più volte sotto interrogatorio per notti intere, cambiando psicologi e psichiatri, usando metodi ortodossi e non. Ma niente. Nemmeno il licenziamento, prima usato come arma di ricatto, poi sviscerato davanti ai suoi occhi come realtà indiscutibile, riuscirono a rianimarlo. La pensione, il riposo, il futuro programmato; tutto deragliato in un attimo.

Da allora il signor Mosotti vive in un manicomio. La moglie si è convinta di aver vissuto per 32 anni con un malato di mente, le figlie lo ignorano davanti agli amichetti, i colleghi hanno preso la loro rivincita. Di notte, qualche volta, ripensa al volo di quella farfalla bianca e meravigliosa, alla sua sinuosità perfetta, alla sua calma. Rivede quello sbatter d’ali morbido e gentile, come se l’aria fosse stata accarezzata placidamente, e sorride. Il signor Mosotti sogna. E, in cuor suo, nel più profondo dei sentimenti, sa di aver amato, almeno per un attimo.

Raffaele Nappi

martedì 3 luglio 2012

Papa Alino, il Papa Nero come i bambini


-Santa Maria In Trastevere?
-Sì, bravo proprio quella.
-Ma, sua Eccellenza, non le sembra un tantino… inappropriato?
-La Boston Mailing Group mi ha assicurato che le funzioni non saranno soppresse, i crocefissi saranno rispettati. Cosa chiedere di più? D’altronde per un prezzo così…

Quando il conclave si riunì per la duecentosettantaquattresima volta fu eletto Papa Alino, che entrò di prepotenza nella storia. Non solo perché il suo colore della pelle tendeva drasticamente al nero-qualcuno direbbe fosse un po’ troppo… “abbronzato”- ma poiché fu il primo papa della lunga storia ecclesiale ad essere eletto con tutti i voti, dico tutti, a favore. Nessuno metteva in dubbio, nemmeno nei meandri più intimi del dubbio personale, la rettitudine di quest’uomo, la sua capacità di parlare alle folle, la fortezza nel condannare le ingiustizie. Tutti, nessuno escluso, pensarono che papa Alino fosse la persona giusta, una manna dal cielo caduta a fagiolo, per risanare le crepe nella Chiesa, per riportarla a quella credibilità che da tempo le spettava. E tutto, almeno all’inizio, andò secondo i piani.

Quando il fascio bianco di fumo si avviluppò lungo il cielo di Roma, e la piazza si riunì di curiosi più che fedeli, fu strano vedere da lontano quella macchiolina scura vestita di bianco, qualcuno avrebbe detto che fosse addirittura nera. Un papa nero? Sì, un papa nero.

Papa Alino approfittò di quel palcoscenico per mostrare al mondo intero riunito al suo microfono tutte le sue abilità retoriche. Le parole che rimbombarono tra le fontane e le statue della piazza furono salde e precise, piene di calda speranza e di ferma condanna. Finalmente, un papa così. Finalmente!

Passarono giorni, qualche mese. L’attenzione dei giornali scemò come qualsiasi attenzione umana, che zompetta di evento in evento come un’ape che vola di petalo in petalo, troppo avida di curiosità per mettere radici su di un fiore. Ma, come sempre accade per la memoria umana, facile a dimenticare e altrettanto facile a riprendere un argomento come se niente fosse stato, il picco fu raggiunto prontamente durante una normalissima udienza settimanale. La sala vaticana era piena in ogni ordine di posto- usanza letteraria quanto mai azzeccata in un caso del genere- e, tra la folla, un folto gruppo di bambini si distingueva per il malcelato baccano. Papa Alino entrò su di una macchinetta blindata, con vetri appositamente neri per l’occasione. Raggiunse il microfono con abilità fisica quasi sconcertante rispetto ai suoi predecessori. E chi lo uccide questo? Pensarono in molti.

Papa Alino si prodigò in un saluto in mille lingue diverse, tutte universali. Poi, quasi timidamente, cominciò la sua riflessione.

“Care amiche, cari amici, care bambine, cari bambini. Vorrei parlarvi oggi di una decisione che ho maturato in questi miei primi mesi di pontificato. Molte cose sono cambiate in questo seppur breve tempo, e molte cambieranno. Il giudizio di Dio è sempre più vicino, il suo tempo sta per compiersi. Prepariamoci al meglio. Perché noi non sappiamo quando arriverà il Salvatore, ma dobbiamo farci trovare sempre pronti, sicchè ognuno di noi possa dire al Redentore “Io ho amato il prossimo mio come me stesso, come tu ci hai insegnato”. Anch’io, nel mio piccolo potere che ho su questa terra, ho deciso di darmi da fare. E lo dimostrerò. Giuro che ve lo dimostrerò.”

Giornali e televisioni subito ritornarono a piazzare i loro segugi tra le colonne del Vaticano, allarmati dallo scoop che lasciavano presagire quelle parole. E, come spesso accade, la notizia non si fece attendere. Un informatore segreto, che acconsentì a farsi chiamare il corvo II (qualcuno ricorderà forse un episodio simile che generò il primo vero corvo della storia) rilasciò dichiarazioni sconvolgenti attraverso una serie di interviste a raffica per 10 televisioni diverse e 15 giornali di tutto il mondo. Riportiamo, qui di seguito, il discorso segreto del Papa Alino con i suoi più stretti collaboratori al momento della discussione.

-Santa Maria In Trastevere?
-Sì, bravo proprio quella.
-Ma, sua Eccellenza, non le sembra un tantino… inappropriato?
-La Boston Mailing Group mi ha assicurato che le funzioni non saranno soppresse, i crocefissi saranno rispettati. Cosa chiedere di più? D’altronde per un prezzo così…

Papa Alino aveva mantenuto la parola. In nome dell’amore verso il prossimo come se stessi egli decise di vendere la storica Chiesa di Santa Maria in Trastevere agli americani della Boston Mailing Group per tre triliardi di dollari. Con quei soldi, di cui buona parte fu fatta stampare subito dal papa per evitare che finisse nelle profondissime fortezze delle banche vaticane, 100 mila bambini furono salvati dalla fame e coinvolti nel progetto- dal nome tutt’altro che fantasioso- “Anche Papa Alino aiuta il prossimo”. I bambini furono inseriti in strutture moderne e, insieme alle proprie famiglie, studiarono nelle migliori università del mondo. Quando si chiedeva loro in cosa credessero, subito ti rispondevano “Nel mio prossimo, come Papa Alino!”. Visto il successo dell’iniziativa, e data la freschezza atletica del papa nonostante la veneranda età, 20 anni dopo egli decise di dare avvio alla seconda edizione del progetto.
 In esclusiva mondiale riportiamo il dialogo tra Papa Alino e i suoi funzionari, in base alla testimonianze di un informatore segreto, fattosi chiamare per l’occasione il corvo III (qualcuno, tra le righe dei giornali, aggiungeva con blasfemia il termine la vendetta) .

-Egregi Cardinali, non guardatemi così. Mi sento ancora in piena forma.
-Ma, sua Eccellenza, noi tutti vogliamo che lei viva il più a lungo possibile.
-Colgo l’occasione, allora, per comunicarvi la mia nuova decisione. L’azienda americana Facebook mi ha appena presentato un’offerta per 10 triliardi di dollari. Riuscite a immaginare quanti bambini potremmo salvare dalla fame?
-Tantissimi sua Eccellenza, tantissimi. Ma, ci dica, per cosa le hanno offerto tutti questi soldi?
-State tranquilli, miei cari. Gli americani mi hanno assicurato che niente sarà cambiato. Al massimo qualche verniciata di blu e qualche f dipinta al centro della cupola.
-La cupola? Di quale cupola sta parlando, sua Eccellenza?
-Naturalmente, della cupola di San Pietro. Non è un’offerta incredibile?!

Qualcuno dice che molti cardinali svennero saputa la notizia. I bambini, quelli, cominciarono a festeggiare.

Raffaele Nappi