mercoledì 27 giugno 2012

Ditelo a mio padre


-          Andiamo?
-          No.
La risposta più o meno è sempre la stessa.
Mi piace la scuola, mi piace stare in giro a giocare con i miei amici, mi piace passare il tempo nel quartiere. Di mattina, appena mi alzo, vedo la luce dorata che si riflette nel mio baldacchino d’oro. È una bella sensazione. Mi sveglio con un miliardo di buone intenzioni.
 Faccio colazione con tutta la famiglia al completo; solo papà ogni tanto manca. Mi dicono che è uscito presto per andare a lavorare. Ho 10 anni ma tutti dicono che ne dimostro di più.
 Non mi piace questa frase. Vorrei essere bambino ancora per molto, non sono pronto per la vita vera. Appena finita la colazione sono già tutto ordinato per andare a scuola. Mi piace la scuola. Mi piace passare il tempo con i miei amici.
La macchina guidata dall’amico di papà è così bella che tutti si fermano a guardarla quando arrivo nel cortile. È nera, brilla sempre quando il sole si bagna sui suoi specchi. Di solito mi siedo dietro, così sono più comodo e faccio tutte le facce che voglio, senza dare spiegazioni.
 Scendo con un po’ di vergogna nel cuore perché sento troppi occhi addosso ai miei. Cerco di arrivare qualche istante prima della campanella, in modo tale da poter entrare subito in classe. Mi piacerebbe tanto passare il tempo a chiacchierare con i miei amici, prima del suono di quella campanella. Le lezioni sono sempre così interessanti.
 Sono molto attento, mi piacciono l’Italiano e la Geografia. Ogni tanto cerco di fare qualche domanda ai miei amici sulle capitali più strane al mondo ma quelli non mi rispondono. Sono seduto in un banchetto vicino alla cattedra. Certo, lo spazio nella classe è quello che è, ma mi sarebbe piaciuto stare vicino ai miei amici. Quando arriva l’ora dell’intervallo spesso vado direttamente in bagno. I miei amici fanno capolino nel corridoio per spiare le ragazze delle altre classi.
Mi piacerebbe guardarle con loro. Alcuni si mettono in cerchio e si scambiano i telefonini, lontani dallo sguardo della maestra. Io me ne sto in bagno e ci resto più del dovuto. Non ho mai capito come facciano a stare sempre insieme. Sono un tipo preciso, io. Torno in classe e mi siedo al banchetto, con la maestra che mi guarda, più spaventata che compiaciuta.
 Ogni tanto me ne vado alla finestra a guardare il vento che soffia tra gli alberi. Mi piace guardare il vento. C’è sempre, anche se non lo vedi mai. Quando i 15 minuti di pausa sono finiti la maestra ha difficoltà a far tornare l’attenzione tra noi. Tutti pensano già alla fine della giornata.
 Alcuni minuti prima della campanella siamo già pronti per uscire; lo zaino in spalla, chiuso, il cappotto sulle spalle, abbottonato. Non ho mai capito chi si prepara prima della campanella. Dovrebbero farlo dopo. Altrimenti che esisterebbe a fare la campanella? Sono un tipo preciso, io. Quando usciamo è il momento più bello per tutti. I miei amici si spingono tra di loro, fanno i trenini, salutano le altre ragazze tutti rossi in faccia. Mi piacerebbe giocare con loro.
 Nel cortile c’è sempre l’amico di papà, già pronto con la macchina accesa. Salgo su con la vergogna che mi accompagna e gli sguardi delle mamme che mi seguono fin dentro. Non mi piace essere guardato così tanto.
 Il pranzo, di solito, lo mangio in compagnia della donna che ci aiuta in casa. Non è straniera, ed è già qualcosa. Scambiamo poche parole. Mia mamma è sempre stanca; sta a letto e a telefono buona parte della giornata. Mio padre lo vedo solo la sera, alle 8. Il pomeriggio è sempre un’occasione per divertirmi. Ho dei giochi fantastici; posso far finta di essere un generale delle truppe americane e sparare tutti i miei nemici. Posso essere il Presidente delle Nazioni Unite che ha il compito di salvare l’umanità contro l’invasione aliena. Passo parecchie ore nella mi stanza davanti allo schermo. Il sole che sbatte sul pavimento viene spesso a farmi compagnia. Quando se ne va, sento un po’ di nostalgia.
 I miei amici giù, nel quartiere, giocano con il Super Santos. Mi piacerebbe giocare con loro. Sono un portiere nato, io. Ma non posso. Papà dice che è pericoloso.
Una volta sono sceso senza dirlo a nessuno. Tutti mi credevano davanti allo schermo, che in effetti era rimasto acceso per la buona riuscita del mio piano. Quando ho visto i ragazzi mi sentivo battere il cuore dalla gioia. Era un po’ a disagio per il fatto degli sguardi, ma avevo la ferma decisione di sfruttare quella piccola occasione che m’ero creato. I ragazzi mi hanno visto arrivare, qualcuno di loro se n’è andato subito. Forse aveva da fare. Gli altri hanno detto che oramai s’era fatto tardi e che avremmo giocato il giorno dopo. Purtroppo sono stato scoperto quel giorno stesso, mi hanno messo in punizione. Non  mi è rimasto che stare ad ascoltare le loro urla appresso a quel pallone, in compagnia del sole dorato che sbatteva sul pavimento della stanza.
 La sera si cena sempre alle 8 in punto a casa mia. Il tavolo è lungo, di legno lucido. Mio padre siede sempre a capotavola insieme al suo amico. Sembra che abbiano sempre da fare. Parlano, parlano, parlano. Ogni tanto papà mi chiede se voglio un regalo. Io accetto, mi piacciono i regali. Ma vorrei che stesse più tempo insieme a me e non sempre con i suoi amici.
 Mi basterebbe un regalo in meno in cambio di un’ora passata con me nella mia stanza dorata. La sera, dopo cena, rimango a vedere la tv insieme alla donna delle pulizie. Mamma si rimette al telefono; ogni tanto si chiude nella stanza di papà ma non ne capisco il motivo. Spesso mi ritrovo addormentato sul divano, con la tv ancora accesa. Me ne torno in stanza, tutto addormentato. Quando sono sul letto, però, mi viene da pensare.
 Vorrei essere un bambino come tutti, senza troppi sguardi addosso. Vorrei avere una famiglia piccola ma normale, che passi il tempo insieme a me piuttosto che sparire ogni momento. Vorrei avere un padre che non sia chiamato Capo, o Boss, o Presidente. Vorrei che i bambini tornassero a giocare con me quando gli vado incontro. Vorrei che le persone non mi indicassero sempre ad ogni mio passaggio. Vorrei che la mia vita fosse normale, vorrei sorridere a mio padre, vorrei scherzare con mia madre. Vorrei che tutti nella mia famiglia fossero meno seri. Vorrei che la camorra, o almeno così la chiamano, non abitasse proprio nel cuore dei miei genitori, dei miei zii. Non voglio continuare a crescere in questa casa sempre chiusa. Non voglio i giochi, non voglio i regali. Voglio solo respirare aria fresca di libertà.
Se lo incontrare ditelo a mio padre.

Raffaele Nappi

mercoledì 13 giugno 2012

Lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano



Egregio Presidente Giorgio Napolitano,
si sa, sono tempi difficili per tutti, specialmente per noi giovani. Ma la mia, questa volta, non è una lettera di lamentela per le condizioni della ”categoria” cui appartengo. Vorrei porgere alla sua attenzione un’altra questione. Dopo la pubblicazione di numerose inchieste su diversi giornali italiani, ultima quella apparsa oggi, 11 giugno, sulla <<Repubblica>>, sale la rabbia e lo sdegno per quello che sta accadendo nel nostro Paese. I Cie, centri di identificazione ed espulsione, somigliano sempre più a dei veri e propri lager. “A Torino nel 2011 ci sono stati 156 atti di autolesionismo, 100 per ingestione di corpi estranei e 56 per ferite di arma da taglio. Un terzo dei reclusi assume psicofarmaci” scrive <<la Repubblica>>. “Ci si taglia, ci si cuce la bocca, si ingoiano pile e altri corpi estranei. Così, sperano i rinchiusi dei Cie, andranno in ospedale e da lì sarà più facile scappare.” È una situazione vergognosa e insostenibile per il nostro Paese, che tanto si vanta di essere una moderna democrazia occidentale. Di occidentale, nel proposito, si nota solo la classica prepotenza nella reiterazione della forza come unico mezzo di autorità. La maggior parte degli “ospiti”, ovviamente stranieri, è rinchiusa in questi luoghi senza motivo e senza aver violato nessuna legge. In un Paese civile come il nostro, non possiamo ammettere ci siano comportamenti del genere. Durante la conferenza tenutasi a Roma “Mediamente diversi” proprio sul tema dell’immigrazione, molti giornalisti ed intellettuali hanno sottolineato con forza questa situazione, denunciandone il silenzio che si è generato intorno. Ad oggi, è vietato ai giornalisti accedere a queste strutture, e se ciò accade, lo si fa con largo anticipo, per avere tutto il tempo di “preparare la scena”. Tutti questi episodi denigrano la categoria dei giornalisti, oltre a calpestare i diritti dei migranti e il concetto di verità stessa. Le chiedo, con tutta l’umiltà della mia posizione, di prendere provvedimenti drastici in merito alla questione, di intervenire in maniera dura e chiarificatrice.  Proprio in questi giorni è in corso un’ispezione nei suddetti centri, ma, come già spiegato, i risultati potrebbero essere drasticamente lontani dalla realtà. Con il potere in suo possesso, potrebbe raccogliere gli sforzi di tutti quei giornalisti che lottano ogni giorno per smascherare tali ingiustizie e raccontarle all’opinione pubblica. Potrebbe invertire la rotta che, purtroppo, sta dirigendo il nostro Paese su posizioni sempre più intransigenti nei confronti di fenomeni migratori, e nei confronti della diversità in generale. In giorni come questi, mentre la popolazione è distratta da partite di calcio e crisi finanziarie, potrebbe dare un segnale forte, un segnale di dignità e di umanità dell’Italia. Un Paese in cui la civiltà non è solo simbolo di ciò che è stato, ma anche di ciò che è, e di ciò che sarà.

Raffaele Nappi   Roma, 11 giugno 2012 

martedì 5 giugno 2012

La volante sulle strisce, i poliziotti a fare colazione!


A volte basta scendere di casa e fare due passi per rendersi conto del Paese in cui viviamo. Ebbene sì. È successo proprio questa mattina. Viale Marconi, ore 9 e 16, una volante ferma per intero sulle strisce pedonali; a pochi metri, alla porta del bar, sorridenti e gaudiosi sostavano i poliziotti, con le mani indaffarate con cornetto e cappuccino. I miei rimpianti aumentano solo adesso, dopo essermi reso conto che una bella foto in faccia ai due mascalzoni avrebbe dato loro una solenne lezione. Inviterei caldamente i signori poliziotti, insieme ai carabinieri e agli ausiliari del traffico, a svolgere il proprio lavoro in maniera seria e precisa. Soprattutto tenendo conto che  proprio in via Enrico Fermi, ogni giorno, sono DECINE, le auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Con che spirito quei due mascalzoni faranno le multe agli altri automobilisti? Un bell’esempio, davvero un bell’esempio.

Raffaele Nappi

lunedì 4 giugno 2012

Cine-Ma, La Dolce Vita


La dolce vita Italia-Francia 1960, di FEDERICO FELLINI, con MARCELLO MASTROIANNI, ANITA EKBERG, ANOUK AIME’E, YVONNE FURNEAUX, ALAIN CUNY.

Quando nel 1960 ebbe luogo la prima de “La dolce vita” al Capitol di Milano Fellini fu fischiato e addirittura sputato in faccia perché secondo Cabona considerato “detrattore” dell’aristocrazia e della borghesia italiana dell’epoca; anche Mastroianni venne insultato. La pellicola, la sera stessa, venne ritirata per motivi di ordine pubblico: il regista venne surclassato da telegrammi che lo apostrofavano come un comunista, un ebreo e un traditore; il Vaticano incitò i propri fedeli affinchè pregassero per l’anima del regista; l’Osservatore Romano aprì i due giorni consecutivi l’uscita con titoli come “La sconcia vita” e “Basta!”. Tutto ciò ha contribuito a creare intorno alla pellicola quel fascino del proibito che portò le folle ad accalcarsi fuori le sale cinematografiche.

Nonostante sia circondato da un alone di negatività e mistero non si può negare la grandezza e l’originalità di un film che, a distanza di cinquantadue anni, suscita ancora emozioni uniche soprattutto per le scene di forte impatto morale, culturale e psicologico.

La vita di Marcello attorno alle notti mondane di Via Vittorio Veneto (tra l’altro ricostruite a Cinecittà) in compagnia del fotoreporter Paparazzo (da qui è stata coniata l’espressione attuale per indicare i fotografi sempre in cerca di nuovi scoop) con il quale è sempre in prima linea negli avvenimenti scandalistici che contano a Roma; di donne ricche (con cui intraprendere relazioni extraconiugali); di stelle del cinema con cui balla fino all’alba e si immerge nella famosa fontana. Indimenticabili le feste improvvisate nelle ville della borghese aristocrazia romana di cui il personaggio incarnato da Mastroianni è il principale, e più richiesto, protagonista. L’insensatezza e la superficialità di questa vita porta successivamente Steiner, scrittore e conoscente di Marcello, all’omicidio dei suoi bambini e al suicidio, che in questo mondo insensibile e sconclusionato può sembrare l’unica via di uscita.

Per onorare la Repubblica Italiana, ricordiamo che la R.A.I. ebbe il barbaro coraggio di trasmettere quello che è stato considerato dai migliori critici uno dei capolavori assoluti di tutti i tempi nel 1976 ben sedici anni dopo la sua uscita.

Marco e Domenico

venerdì 1 giugno 2012

La leggenda del giullare triste

Il re confuso compose una canzone.
Una canzone?
Sì, proprio una canzone!
E quando l’ha scritta?
Stanotte, dicono che non abbia mai smesso di lavorare.
E adesso, noi che fine faremo?
Facile; ci ha sfidato in un grande duello pubblico. Ci sarà una festa aperta a tutti. Verranno signori da ogni contea. E il re, si dice, canterà la sua canzone per la prima volta.
E noi?
Noi dovremo sfidarlo con le armi che abbiamo sempre avuto; sarà una battaglia a suon di parole. Ma solo il vincitore rimarrà in vita.
Solo il vincitore? Io non voglio partecipare! Sto bene così.
Troppo facile. Il re vuole proprio noi.
Non accetto. Mi rifiuto!
Se non partecipi ti ammazza adesso.
Porca puttana.
Porca puttana.

I due giullari avevano solo 3 giorni di tempo per prepararsi alla sfida del secolo. Nel castello arrivavano ad ogni ora signori e conti, in attesa del grande evento.

Perché non prepari niente?
E’ inutile. Tanto già so che verrò decapitato. Da qui a 3 giorni sarò solo un tronco freddo.
Con te è sempre la stessa storia.
Lasciami perdere.
Ti lascio perdere.

Era arrivato il giorno. Il sole si era nascosto da tempo. La serata era scossa da leggeri grappoli di vento, che a tratti disegnavano in capo ai partecipanti fili di figure fantastiche e irripetibili. Alcune anche buffe. I due giullari entrarono accolti da un applauso convinto. Erano in fila. Il secondo sembrava abbastanza contrariato.

Forza cammina. Seguimi.
Un attimo, un attimo.
Non fare cavolate. Giochiamoci le nostre carte.
Tanto è inutile.

I due si posizionarono al centro della scena. Si fece silenzio. I volti dei presenti si girarono tutti nella direzione opposta. Il re, lento, avanzava. I suoi vestiti erano bianchi e gialli, il portamento non ingannava. Si fece di nuovo silenzio.

Vai.
Tanto è inutile.
Ti ho detto vai.
Te l’ho detto, tanto è inutile.

I due giullari cominciarono a cantare. Nessuno dei presenti ebbe il coraggio di cambiare posizione. Poi fu la volta del re. Era la prima volta che un re si esibiva in pubblico. Non si era mai vista una cosa del genere. In altri tempi lo avrebbero deriso a morte. Ma nessuno osava farlo. Lui era il re.

Durante quella melodia i due giullari cominciarono a tremare.

È la fine. Te l’avevo detto.
Non disperare. Aspettiamo.

I due giullari furono condannati a morte. Fu il primo caso di commissione comprata nella storia.

Forza cammina.
A ora sei tu a spingere?
E’ andata così. È stato bello lo stesso.

 Il patibolo era già stato preparato dal pomeriggio. Quando il re fu dichiarato vincitore alcuni servi entrarono con la macchina di morte. Il cappio penzolava, affamato. I due giullari camminavano lenti lungo il percorso che li avrebbe portati al cielo. Avanzavano. Quello più indietro era più lento del solito. A un tratto si fermò.

Cammina!

Nessuno dei presenti osava esprimere una protesta. Il giullare più piccolo fu il primo a essere posizionato sulla pedana. Mise la testa nella posizione giusta. E cominciò a cantare. Cantò come mai nessuno aveva cantato prima. Cantò come uno spirito redente. Tutti i presenti rimasero commossi dal giullare. Ma nessuno poteva versare lacrime. Il re li avrebbe uccisi all’istante. E così i due giullari se ne andarono, in silenzio, ma con quella melodia sognata nella mente di ogni presente.

Da allora, tutte le notti, le mamme raccontano ai propri bambini la storia del giullare. E gli spalancano la porta dei sogni cantando la sua canzone. Eccola http://www.youtube.com/watch?v=MghrptkC--0

Raffaele Nappi