C’è un momento in cui odio le parole. Parole sputate al vento scoccate
da una lingua malvagia, parole superflue come l’acqua in una bolla che scoppia,
parole che pesano sull’aria rendendola densa e rarefatta. Ci sono momenti in
cui le parole diventano sassi difficili da digerire, non perché dicono la
verità ma perché rimbombano nelle stanze ancora vuote, e ancora, e ancora. Queste
parole non si fermano, non si vogliono fermare. Mi hanno stancato il cervello a
furia di dar loro ascolto. Sto per alzarmi per fare qualcosa; vorrei spegnerle,
vorrei abbassare il loro volume. Vorrei cancellare le parole, sì, sono cosciente.
A volte vorrei cancellare le parole. È una questione di rispetto. Bisogna rispettarle,
le parole. C’è chi ci muore per le parole. C’è chi, ora, è sbattuto al buio col
culo per terra in una cella che è una stalla. C’è chi ci ha vissuto con le
parole. C’è chi le parole le ha messe insieme in un congegno quasi perfetto che
è rimasto nella memoria anche di chi deve ancora nascere. C’è chi ha scolpito
col martello le parole sul cuore della storia. C’è chi ha ucciso, con le
parole. Per questo quando usate le parole non fatelo a caso. O almeno, ditemelo
così mi allontano. Dovrò imparare i meccanismi per chiudere il cervello quando
non è aria. O forse bisogna aprirlo. Perché se non sento l’altro cosa dice
allora che vivo a fare?
R.
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