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Andiamo?
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No.
La risposta più o meno è sempre la stessa.
Mi piace la scuola, mi piace stare in giro
a giocare con i miei amici, mi piace passare il tempo nel quartiere. Di
mattina, appena mi alzo, vedo la luce dorata che si riflette nel mio
baldacchino d’oro. È una bella sensazione. Mi sveglio con un miliardo di buone
intenzioni.
Faccio colazione con tutta la famiglia al completo; solo papà ogni tanto manca. Mi dicono che è uscito presto per andare a lavorare. Ho 10 anni ma tutti dicono che ne dimostro di più.
Non mi piace questa frase. Vorrei essere bambino ancora per molto, non sono pronto per la vita vera. Appena finita la colazione sono già tutto ordinato per andare a scuola. Mi piace la scuola. Mi piace passare il tempo con i miei amici.
La macchina guidata dall’amico di papà è così bella che tutti si fermano a guardarla quando arrivo nel cortile. È nera, brilla sempre quando il sole si bagna sui suoi specchi. Di solito mi siedo dietro, così sono più comodo e faccio tutte le facce che voglio, senza dare spiegazioni.
Scendo con un po’ di vergogna nel cuore perché sento troppi occhi addosso ai miei. Cerco di arrivare qualche istante prima della campanella, in modo tale da poter entrare subito in classe. Mi piacerebbe tanto passare il tempo a chiacchierare con i miei amici, prima del suono di quella campanella. Le lezioni sono sempre così interessanti.
Sono molto attento, mi piacciono l’Italiano e la Geografia. Ogni tanto cerco di fare qualche domanda ai miei amici sulle capitali più strane al mondo ma quelli non mi rispondono. Sono seduto in un banchetto vicino alla cattedra. Certo, lo spazio nella classe è quello che è, ma mi sarebbe piaciuto stare vicino ai miei amici. Quando arriva l’ora dell’intervallo spesso vado direttamente in bagno. I miei amici fanno capolino nel corridoio per spiare le ragazze delle altre classi.
Mi piacerebbe guardarle con loro. Alcuni si mettono in cerchio e si scambiano i telefonini, lontani dallo sguardo della maestra. Io me ne sto in bagno e ci resto più del dovuto. Non ho mai capito come facciano a stare sempre insieme. Sono un tipo preciso, io. Torno in classe e mi siedo al banchetto, con la maestra che mi guarda, più spaventata che compiaciuta.
Ogni tanto me ne vado alla finestra a guardare il vento che soffia tra gli alberi. Mi piace guardare il vento. C’è sempre, anche se non lo vedi mai. Quando i 15 minuti di pausa sono finiti la maestra ha difficoltà a far tornare l’attenzione tra noi. Tutti pensano già alla fine della giornata.
Alcuni minuti prima della campanella siamo già pronti per uscire; lo zaino in spalla, chiuso, il cappotto sulle spalle, abbottonato. Non ho mai capito chi si prepara prima della campanella. Dovrebbero farlo dopo. Altrimenti che esisterebbe a fare la campanella? Sono un tipo preciso, io. Quando usciamo è il momento più bello per tutti. I miei amici si spingono tra di loro, fanno i trenini, salutano le altre ragazze tutti rossi in faccia. Mi piacerebbe giocare con loro.
Nel cortile c’è sempre l’amico di papà, già pronto con la macchina accesa. Salgo su con la vergogna che mi accompagna e gli sguardi delle mamme che mi seguono fin dentro. Non mi piace essere guardato così tanto.
Faccio colazione con tutta la famiglia al completo; solo papà ogni tanto manca. Mi dicono che è uscito presto per andare a lavorare. Ho 10 anni ma tutti dicono che ne dimostro di più.
Non mi piace questa frase. Vorrei essere bambino ancora per molto, non sono pronto per la vita vera. Appena finita la colazione sono già tutto ordinato per andare a scuola. Mi piace la scuola. Mi piace passare il tempo con i miei amici.
La macchina guidata dall’amico di papà è così bella che tutti si fermano a guardarla quando arrivo nel cortile. È nera, brilla sempre quando il sole si bagna sui suoi specchi. Di solito mi siedo dietro, così sono più comodo e faccio tutte le facce che voglio, senza dare spiegazioni.
Scendo con un po’ di vergogna nel cuore perché sento troppi occhi addosso ai miei. Cerco di arrivare qualche istante prima della campanella, in modo tale da poter entrare subito in classe. Mi piacerebbe tanto passare il tempo a chiacchierare con i miei amici, prima del suono di quella campanella. Le lezioni sono sempre così interessanti.
Sono molto attento, mi piacciono l’Italiano e la Geografia. Ogni tanto cerco di fare qualche domanda ai miei amici sulle capitali più strane al mondo ma quelli non mi rispondono. Sono seduto in un banchetto vicino alla cattedra. Certo, lo spazio nella classe è quello che è, ma mi sarebbe piaciuto stare vicino ai miei amici. Quando arriva l’ora dell’intervallo spesso vado direttamente in bagno. I miei amici fanno capolino nel corridoio per spiare le ragazze delle altre classi.
Mi piacerebbe guardarle con loro. Alcuni si mettono in cerchio e si scambiano i telefonini, lontani dallo sguardo della maestra. Io me ne sto in bagno e ci resto più del dovuto. Non ho mai capito come facciano a stare sempre insieme. Sono un tipo preciso, io. Torno in classe e mi siedo al banchetto, con la maestra che mi guarda, più spaventata che compiaciuta.
Ogni tanto me ne vado alla finestra a guardare il vento che soffia tra gli alberi. Mi piace guardare il vento. C’è sempre, anche se non lo vedi mai. Quando i 15 minuti di pausa sono finiti la maestra ha difficoltà a far tornare l’attenzione tra noi. Tutti pensano già alla fine della giornata.
Alcuni minuti prima della campanella siamo già pronti per uscire; lo zaino in spalla, chiuso, il cappotto sulle spalle, abbottonato. Non ho mai capito chi si prepara prima della campanella. Dovrebbero farlo dopo. Altrimenti che esisterebbe a fare la campanella? Sono un tipo preciso, io. Quando usciamo è il momento più bello per tutti. I miei amici si spingono tra di loro, fanno i trenini, salutano le altre ragazze tutti rossi in faccia. Mi piacerebbe giocare con loro.
Nel cortile c’è sempre l’amico di papà, già pronto con la macchina accesa. Salgo su con la vergogna che mi accompagna e gli sguardi delle mamme che mi seguono fin dentro. Non mi piace essere guardato così tanto.
Il
pranzo, di solito, lo mangio in compagnia della donna che ci aiuta in casa. Non
è straniera, ed è già qualcosa. Scambiamo poche parole. Mia mamma è sempre
stanca; sta a letto e a telefono buona parte della giornata. Mio padre lo vedo
solo la sera, alle 8. Il pomeriggio è sempre un’occasione per divertirmi. Ho
dei giochi fantastici; posso far finta di essere un generale delle truppe americane
e sparare tutti i miei nemici. Posso essere il Presidente delle Nazioni Unite
che ha il compito di salvare l’umanità contro l’invasione aliena. Passo
parecchie ore nella mi stanza davanti allo schermo. Il sole che sbatte sul
pavimento viene spesso a farmi compagnia. Quando se ne va, sento un po’ di
nostalgia.
I miei amici giù, nel quartiere, giocano con il Super Santos. Mi piacerebbe giocare con loro. Sono un portiere nato, io. Ma non posso. Papà dice che è pericoloso.
I miei amici giù, nel quartiere, giocano con il Super Santos. Mi piacerebbe giocare con loro. Sono un portiere nato, io. Ma non posso. Papà dice che è pericoloso.
Una volta sono sceso senza dirlo a nessuno.
Tutti mi credevano davanti allo schermo, che in effetti era rimasto acceso per
la buona riuscita del mio piano. Quando ho visto i ragazzi mi sentivo battere
il cuore dalla gioia. Era un po’ a disagio per il fatto degli sguardi, ma avevo
la ferma decisione di sfruttare quella piccola occasione che m’ero creato. I
ragazzi mi hanno visto arrivare, qualcuno di loro se n’è andato subito. Forse
aveva da fare. Gli altri hanno detto che oramai s’era fatto tardi e che avremmo
giocato il giorno dopo. Purtroppo sono stato scoperto quel giorno stesso, mi
hanno messo in punizione. Non mi è
rimasto che stare ad ascoltare le loro urla appresso a quel pallone, in
compagnia del sole dorato che sbatteva sul pavimento della stanza.
La
sera si cena sempre alle 8 in punto a casa mia. Il tavolo è lungo, di legno
lucido. Mio padre siede sempre a capotavola insieme al suo amico. Sembra che
abbiano sempre da fare. Parlano, parlano, parlano. Ogni tanto papà mi chiede se
voglio un regalo. Io accetto, mi piacciono i regali. Ma vorrei che stesse più
tempo insieme a me e non sempre con i suoi amici.
Mi
basterebbe un regalo in meno in cambio di un’ora passata con me nella mia
stanza dorata. La sera, dopo cena, rimango a vedere la tv insieme alla donna
delle pulizie. Mamma si rimette al telefono; ogni tanto si chiude nella stanza
di papà ma non ne capisco il motivo. Spesso mi ritrovo addormentato sul divano,
con la tv ancora accesa. Me ne torno in stanza, tutto addormentato. Quando sono
sul letto, però, mi viene da pensare.
Vorrei essere un bambino come tutti, senza
troppi sguardi addosso. Vorrei avere una famiglia piccola ma normale, che passi
il tempo insieme a me piuttosto che sparire ogni momento. Vorrei avere un padre
che non sia chiamato Capo, o Boss, o Presidente. Vorrei che i bambini tornassero a giocare con me quando
gli vado incontro. Vorrei che le persone non mi indicassero sempre ad ogni mio
passaggio. Vorrei che la mia vita fosse normale, vorrei sorridere a mio padre,
vorrei scherzare con mia madre. Vorrei che tutti nella mia famiglia fossero
meno seri. Vorrei che la camorra, o almeno così la chiamano, non abitasse
proprio nel cuore dei miei genitori, dei miei zii. Non voglio continuare a
crescere in questa casa sempre chiusa. Non voglio i giochi, non voglio i
regali. Voglio solo respirare aria fresca di libertà.
Se lo incontrare
ditelo a mio padre.
Raffaele Nappi
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