Di solito preferiva restare da sola. Ma c’era sempre
qualcuno, lì nascosto tra gli alberi, ad osservarla. Baby non era un nome poi
tanto male per una ragazzina come lei. Forse, al massimo, un po’ troppo
occidentale. Quando i fratelli andavano a lavoro lei se ne stava nella foresta
per pomeriggi interi. Correva. Correva su per le alture dell’altopiano, senza
guardare mai il sole; il capo chino e la schiena dritta, immersa nell’aria. Una
bambina poco veloce, ma resistente come pochi. Se gliel’avessero chiesto non
avrebbe saputo rispondere. Baby, allora, com’è nata questa sua passione per la
corsa? A dire il vero non so, passo i pomeriggi correndo, mi piace diventare
vento, tiepida sotto il sole, galleggiando nell’aria. Ma, mi raccomando, non lo
dica a nessuno, non scriva il nome, per piacere. I miei non devono sapere.
Baby, a dire il vero, non avrebbe nemmeno risposto alla
domanda. Non le piaceva rispondere. Forse non le piaceva nemmeno parlare.
Possedeva, a dirla poeticamente, quella capacità elegante e superba della
bellezza rude, quasi violenta, inattaccabile. Era un’anima selvaggia, nuda
nella sua fierezza.
Non era sola, dicevamo. Come qualsiasi bellezza inattaccabile,
Baby era braccata dal cacciatore. Il suo, però, era uno di quei cacciatori
immobili, statici, che aspettano per una vita intera se necessario. Quello,
l’aveva vista correre solo per pochi metri, una volta sull’altura, e svenne,
all’istante. Da allora non aveva fatto altro che seguirla. Era un vecchio
saggio con la passione per la solitudine, perso nella vita tra la vita degli
altri. Non voleva farle del male, per carità. Era solo così; era necessaria.
Guardarla gli serviva per andare avanti. Era una meteora senza esplosioni.
Nessuna cometa, nessuna scia. Nessuna scomparsa.
Il vecchio cacciatore, dannato stratega di novità, era un
appassionato mortale per la tecnologia. Fu così che, dopo 7 mesi dall’ordine
presso la posta del paese più vicino, arrivato un pacco contenente un pc si
ritrovò di nuovo tramortito a terra. Era così, non conosceva mezzi termini. Per
fortuna non conobbe il matrimonio, altrimenti sarebbe cascato dritto in terra
anche lì. L’emozione lo investiva. Punto.
Tralasciamo, delegando l’immagine al lettore, cosa accadde
quando il vecchio cacciatore si dotò di un telefonino incorporato di
telecamera. E di come se ne girava con quell’arma maledetta in pugno a seminare
il panico tra gli abitanti del villaggio, che lo assalivano ogni volta erano
puntati da quell’aggeggio nero. Il cacciatore, dicevamo. Niente, nemmeno gli
svenimenti più recenti, lo fecero allontanare dalla sua gazzella. Ogni
pomeriggio, in un altopiano scosso dal vento, si incontravano senza vedersi un
vecchio pazzo con un telefonino e una ragazza più taciturna di una pietra che
fendeva l’aria, lentamente.
Il cacciatore, quel pomeriggio di primavera, mise su il più
grande progetto della sua vita. Grazie ad un impeccabile sistema di
cronometraggio riuscì a misurare in quanto tempo la giovane gazzella
attraversasse l’altopiano. E così nei giorni successivi. I quaderni, prima
bianchi di solitudine, diventarono zeppi di numeri, cronometri, confronti. Il
vecchio cacciatore, al tavolo, mentre era al lavoro, svenne. Svenne ancora. E
ancora. Passò un intero giorno a rimanere secco. Si svegliava, guardava il
quaderno, e cadeva come freddo corpo cade. Su e giù. Impazzito.
All’ultimo risveglio il vecchio cacciatore si decise.
Sarebbe andato di nuovo all’altopiano. Per l’ultima volta. L’attrezzatura era
fissata, l’obbiettivo pronto a inquadrare la storia. Come un Cacciatore
finalmente degno del suo nome, il vecchio seguì la gazzella in ogni centimetro
della sua corsa. Senza mollarla un attimo. Quando la gazzella scomparve
all’orizzonte, annegata nel vento, tutto era fatto. Il tempo era preso,
l’obbiettivo aveva fatto il suo dovere. Ora era tutto vero. Nessuno avrebbe
potuto negare.
Il video fece il giro del mondo in meno di 80 giorni. In
meno di un giorno. Una gazzella, violenta e selvaggia, che corre come impazzita
verso il vento su un altopiano di una terra che forse manco esiste, talmente
dimenticata da tutti. Una bambina senza nome, che ferma il cronometro sotto il
record del mondo. Prima di tutti, prima del tempo umano, regolare, consentito.
Un miracolo senza nome, senza storia, ma un miracolo. Team di scienziati
confermarono la veridicità dei fatti. Nessuno sapeva chi avesse girato quelle
immagini, non c’era descrizione alcuna, ma tutto era vero. Vero.
Il mondo intero si organizzò in squadre di giornalisti
avventurieri alla ricerca di quella gazzella senza nome, la figlia del vento. Quando
la trovarono riuscirono a strapparle solo poche parole; in cambio tutto il
mondo venne a sapere il suo nome. Baby. Banale, semplice, forse per questo
vincente. Certo, quel nome fu capace di rifiutare un posto nell’Olimpo dello
sport; non sapeva nemmeno cosa significasse la parola sport. Lei correva. E
basta. A nulla servirono le preghiere, i soldi degli sponsor, le pazze offerte
delle federazioni nazionali sportive. La bambina rifiutò, voleva restare con la
sua famiglia. Punto.
Quel punto rimase fermo come un macigno. Ma, il destino,
quello, si mise in moto, questa volta più veloce di lei.
Il direttore olimpico non era mai stato in una situazione
simile. E non ci pensò 2 volte. Basta, fermate tutto, interrompete le gare, le
cerimonie, i festeggiamenti. Spegnete le luci. Restate fermi. Com’è ferma
adesso Baby, sotto i ferri, a lottare per la vita, dopo essere volata in aria.
Una mina. Nient’altro che una mina. Quante ce ne sono nel mondo. Quanti
proiettili nascosti e beffardi pronti a saltellare. Quello di Baby fu un passo
più veloce del vento, ma la sua corsa si arrestò, bloccata da un muro d’aria
improvviso.
Non si era mai visto un episodio simile. Non era mai
accaduto. Mai, da generazioni in generazioni, si era assistito a questo. I
giochi fermi, il silenzio padrone, lo stadio pieno in un’unica preghiera. E una
ragazzina dal nome semplice e banale in una stanza putrida e maleodorante
bruciata dal sole in un campo. Un dottore su di lei, lo sguardo attento, quasi
religioso. Lo stadio non emetteva un suono, lo schermo era buio, come il buio
intorno. E così finì.
Baby morì sotto i ferri. Quel tentativo estremo di salvarla
non aveva fatto altro che apportare nuove infezioni, e ancora altre. Il suo
corpo maciullato dal proiettile sotterraneo era ora una terra di batteri, che
come fuochi roventi le dilaniavano l’anima. Baby se ne andò in mezzo al
silenzio del mondo, allo stupore di chi in lei aveva visto la bellezza della
libertà e la forza della natura. Le olimpiadi ripresero dopo 2 giorni. Il clima
non fu più lo stesso. Il mondo non fu più lo stesso. La cerimonia di chiusura
terminò con una foto, scattata chissà quando, che ritraeva una ragazzina
sorridente. Era Baby.
Lontano, sull’altopiano, un vecchio guardava senza smettere
il campo dilaniato dal vento. Aspettava la sua gazzella.
Raffaele Nappi
Nessun commento:
Posta un commento