"Sospedi tutto, annulla tutti gli appuntamenti. voglio restare solo."
"Ma come, signore? E la riunione con gli autori?"
"Ti ho detto che voglio restare solo."
Dicono che i modi bruschi siano derivati dal carattere del potere, e forse è così. Quel giorno, quel signore che di mestiere faceva il direttore, approfittò di tutta l'autorità che la sua posizione gli dava per essere lasciato in pace. Certo, non era facile circondarsi del silenzio in un ambiente come quello. Tra telefonate, giornali che svolazzavano, appuntamenti con tutti a tutte le ore. Il silenzio era una chimera da quelle parti.
Quel giorno, invece, silenzio fu. Il direttore volle cacciare tutti dall'ufficio, niente e nessuno doveva distrurbarlo. La sua sedia dondolava avanti e indietro, così come l'anima di quel sognatore. Era deciso; sì, quell'idea folle che gli era apparsa come un bagliore latteo andava sviluppata. Punto.
Tutti gli avrebbero remato contro; gli amici, convinti che fosse stato colpito da una malattia istantanea, i colleghi, rafforzati nell'animo di aver convissuto per anni con un estraneo, i parenti, disperati per quella mossa incredibilmente fallace. Gli imprenditori, quelli, avrebbero riso e festeggiato, una volta scoperta la novità. Un suicidio, niente di più, niente di meno. Il direttore, però, era deciso.
E quella notte i suoi occhi non si chiusero nemmeno per un istante; il cervello era in bambola, scosso dalle prospettive. La moglie, rinchiusa nelle sue ansie, sfrenava il pensiero in libere fantasie astrali: "Si comporta in maniera strana, c'è qualcun'altra, di sicuro se la sta spassando con qualche sgualdrina in ufficio". Il povero direttore, più scorbutico del solito, non faceva nulla per smentire quei sospetti. Quando la notte si trasformò in alba, il direttore aveva già pianificato l'intera giornata. Quel 13 settembre, infatti, ci fu una riunione alle 11 in punto nella sala principale dell'edificio.
Gli storici non dimenticarono quel momento. Il direttore parlò forte e chiaro davanti al consiglio di redazione; aleggiavano nell'aria sbuffi, borbottii. Il progetto era fallimentare. Niente da dire. Ebbene, il direttore, come ogni folle che tenta le sue imprese, trovò la buona sorte dalla sua parte. L'editore approvò, il direttore svenne. Quella casa editrice, ora stranamente guidata da una coppia formata da un direttore pazzo e un editore incredibilmente lucido nel dargli autonomia, stava per mettere giù l'idea che avrebbe rivoluzionato il secolo. In pochi mesi, giusto il tempo di stampare le copie, la filiera del libro si ritrovò sottosopra. Mucchi di libri bianchi si aggiravano per le città; completamente bianchi, quasi nulli oseremmo dire. Non un nome, nè un titolo. Le copertine erano tutte identiche. Bianco, che più nianco non si può.
E non immaginate cosa accadde quando il direttore, con l'appoggio dell'editore, ottenne il permesso per aprire la prima libreria, oramai rinnovata del tutto. Mura bianche si confondevano con colonne di libri bianchi, a guardarli bene non si sarebbero nemmeno distinti dal soffitto, bianco pure lui. Le persone accolsero con orrore e simpatia la novità. I membri del cda stavano già esultando, per modo di dire; la casa editrice era in perdita ma la ragione, quella, ce l'avevano ancora loro. Avevano avuto ragione, non c'è che dire.
E invece, dopo un primo momento, fu la curiosità a prevalere sull'orrore. Quel senso di spaesamento cullava i lettori, li avvolgeva come coperta calda. E poi la lettura. E chi lo avrebbe detto. Senza titoli, senza quarte di copertina, bandelle, recensioni, critiche, controcritiche, premi, critiche ai premi, premi alle critiche, insomma senza tutto il contorno, i lettori si immergevano solo nelle parole, quelle sì in nero tra le pagine dei libri bianchi. Passò appena un anno dallo scandalo. I libri bianchi si diffusero prima come un bicchiere d'acqua nel mare, poi come mare nel bicchiere. La lettura diventò il passatempo preferito per le classi più disparate; tutti sembravano assorti dalla bellezza delle parole.
La critica, quella, diventò matta. Molti professori furono licenziati, altri si licenziarono di tronco. Nessuno di loro poteva sopportare quelle scene. Vi chiederete perchè. Ecco, a 5 anni dalla diffusione dei libri bianchi, il direttore contattò l'istituto di statistica nazionale per stilare una classifca dei libri più letti. Orrore! Orrore! Orrore! Sembrava quasi che la libertà si fosse impadronita del mondo; i grandi della letteratura, fino a quel momento padroni inattaccabili delle parole, furono scanzati da autori più sconosciuti, potremmo dire quasi anonimi. Di Hemingway restò solo "Addio alle armi", di Dumas solo "Il conte di Montecristo", di Calvino solo "Marcovaldo". Proust fu completamente dimenticato, per non parlare di James Joyce. "La coscienza di Zeno fu trovato e messo via da qualche vecchio professore di Università. Nessuno lo cercava più, o forse nessuno lo continuava dopo le prime 7 pagine. Fu per questo che l'idea della classifca fu immediatamente rigettata dal direttore, almeno per rispetto verso una categoria che fino ad allora si era dimostrata sempre all'altezza.
Ciò che rimase, invece, fu lo spasso con cui gli uomini e le donne si avvicinavano ai libri, il divertimento con cui li sceglievano, la rapidità con cui li gettavano, l'amore sfrenato che provavono verso quelli che leggevano fino all'ultima pagina. Sì, perchè nel nuovo mercato dei libri bianchi, nessuno poteva bluffare. Tutti erano uguali e tutti erano diversi. Il direttore, una volto morto l'editore, lo sostituì a capo della casa editrice, che intanto era diventata padrona della filiera. Quando anche lui si spense, qualche lettore anonimo andò a depositare sulla sua tomba un piccolo libro bianco, anonimo pure lui. Non sapremo mai di che libro si tratti. Qualcuno dice sia di Saramago, o forse di Isabel Allende. Qualcuno giura sia di Collodi. O forse di Dostoevskij, di Boll, di Shakespeare, di Moliere. Non lo sapremo mai. Continueremo solo a leggere i libri bianchi, persi nell'amore delle parole.
Raffaele Nappi
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