martedì 10 luglio 2012

L'anima di un istante


Il signor Mosotti era un uomo tutto d’un pezzo. Quando si alzava dal letto l’alba cominciava a spumeggiare; la sveglia non strillava mai perché veniva spenta un attimo prima con estrema precisione dalla sua mano decisa. La barba non gli spuntava nemmeno a pagarla; i peli sapevano che, puntualmente, sarebbero spariti prima di vedere il millimetro di lunghezza.
Al lavoro, poi, si compiva il miracolo. Il signor Mosotti, capotreno della compagnia nazionale, aveva collezionato il record di precisione nella storia strada ferrata; mai una partenza in ritardo, mai un arrivo diverso dall’orario previsto dalla tabella di marcia. All’età di 45 anni aveva ricevuto il premio come miglior macchinista dell’anno e rilasciò-senza mai pronunciare più di 5 parole per risposta-una serie di interviste per la stampa e le tv locali.

I colleghi erano intimoriti di fronte a lui, quasi come fosse un dirigente in ispezione tra i subalterni; i superiori lo trattavano come un loro pari; i dirigenti non lo deridevano. La vita di Masotti, in linea con il suo lavoro, non si era mai spostata dal binario previsto: fidanzamento-matrimonio-figli. Tutto procedeva diretto come un treno-perdonate la banalità della similitudine-verso la pensione e il tanto meritato, e programmato, riposo. Una vita già scritta, direbbe qualcuno. Ma mai prevedere il futuro. Più lo si programma più quello scivola via verso destini beffardi e meravigliosamente incomprensibili.

Quella mattina Mosotti era già nella sua cabina di servizio, nemmeno a dirlo in anticipo rispetto a tutti i suoi colleghi. Il treno era sempre lo stesso. Da città a città, da una metropoli a un’altra, salendo o scendendo verso l’orizzonte. Dritto sul sedile, concentrato sempre e solo sulla strada-nonostante si potrebbe dire la sapesse più che a memoria-Mosotti pareva un cavallo a cui fossero stati installati dei paraocchi neri, permanenti e dominatori. Era vietato rivolgergli la parola durante il lavoro, e, nel malaugurato caso in cui qualche collega scambiasse impressioni del tutto improvvise con qualche suo vicino, arrivava incombente come un tuono il richiamo del macchinista.

Quella mattina, dicevamo, Mosotti procedeva lungo i suoi binari, accompagnato dai suoi paraocchi neri. Il viaggio era quasi a metà, la distanza percorsa sforava i 300 km; ne mancavano altri 310 per giungere alla stazione d’arrivo (312km e 257 metri avrebbe suggerito il macchinista) . La concentrazione, come al solito era massima. Rallentare leggermente in curva, scaricare la potenza quando la strada-ops, i binari- è dritta. Il lungo rettilineo, quello che attraversa i gialli campi e le campagne tipiche del paesaggio di mezzo, era cominciato. Nulla potè impedirgli di vederla. Da lontano pareva una foglia. Una foglia strana. Poi, avvicinandosi, l’effetto della fata morgana si dissolveva sempre più, svelando qualcosa di vivo. La foglia si muoveva. A tratti rimaneva immobile, poi ricominciava a mostrare le ali. Le ali. Sì, era un uccello. No, non un uccello. Mosotti-con uno stupore capace di smuovergli la faccia di gesso che era abituato tenere mentre era al lavoro-si rese conto che su quel lungo rettilineo in aperta campagna, lì dove il paesaggio avvolge i binari fino a cullarlo nella sua bellezza, quando la velocità raggiungeva i 297km orari e la distanza percorsa si aggirava intorno al 302 km, lì, su quel binario di un nero quasi morto, arroventato dal sole, lì, su quel pezzo di ferro in mezzo alla natura, c’era una farfalla. Una farfalla. Bianca, macchiata di colori rossi e gialli. Una farfalla meravigliosa. La mente del signor Mosotti non riuscì a selezionare le azioni in modo razionale e ordinato. Quel che accadde, ancora oggi, non ha una logica precisa.

Con una forza vettoriale che superava tonnellate e tonnellate di trazione verso l’avanti, con un rumore di ferraglia che svegliò gli animali nei campi vicini, con un movimento deciso e fermo, il signor Mosotti frenò. E frenò così tanto da far accavallare dietro di sé, come macchinine giocattolo, i vagoni che lo seguivano. Frenò senza un messaggio di avviso ai viaggiatori, senza una comunicazione ai colleghi che parlavano sottovoce alle sue spalle. Come nelle storie a lieto fine, quell’ammasso di ferro si arrestò a pochi centimetri dall’animale. La farfalla, immobile, restò qualche secondo ancora nel suo rifugio mortale, poi, leggiadra, volò via.

Il signor Mosotti non ebbe mai una spiegazione valida per il suo comportamento. La compagnia statale lo mise più volte sotto interrogatorio per notti intere, cambiando psicologi e psichiatri, usando metodi ortodossi e non. Ma niente. Nemmeno il licenziamento, prima usato come arma di ricatto, poi sviscerato davanti ai suoi occhi come realtà indiscutibile, riuscirono a rianimarlo. La pensione, il riposo, il futuro programmato; tutto deragliato in un attimo.

Da allora il signor Mosotti vive in un manicomio. La moglie si è convinta di aver vissuto per 32 anni con un malato di mente, le figlie lo ignorano davanti agli amichetti, i colleghi hanno preso la loro rivincita. Di notte, qualche volta, ripensa al volo di quella farfalla bianca e meravigliosa, alla sua sinuosità perfetta, alla sua calma. Rivede quello sbatter d’ali morbido e gentile, come se l’aria fosse stata accarezzata placidamente, e sorride. Il signor Mosotti sogna. E, in cuor suo, nel più profondo dei sentimenti, sa di aver amato, almeno per un attimo.

Raffaele Nappi

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