Il signor Mosotti era
un uomo tutto d’un pezzo. Quando si alzava dal letto l’alba cominciava a
spumeggiare; la sveglia non strillava mai perché veniva spenta un attimo prima
con estrema precisione dalla sua mano decisa. La barba non gli spuntava nemmeno
a pagarla; i peli sapevano che, puntualmente, sarebbero spariti prima di vedere
il millimetro di lunghezza.
Al lavoro, poi, si compiva il miracolo. Il signor Mosotti, capotreno della compagnia nazionale, aveva collezionato il record di precisione nella storia strada ferrata; mai una partenza in ritardo, mai un arrivo diverso dall’orario previsto dalla tabella di marcia. All’età di 45 anni aveva ricevuto il premio come miglior macchinista dell’anno e rilasciò-senza mai pronunciare più di 5 parole per risposta-una serie di interviste per la stampa e le tv locali.
Al lavoro, poi, si compiva il miracolo. Il signor Mosotti, capotreno della compagnia nazionale, aveva collezionato il record di precisione nella storia strada ferrata; mai una partenza in ritardo, mai un arrivo diverso dall’orario previsto dalla tabella di marcia. All’età di 45 anni aveva ricevuto il premio come miglior macchinista dell’anno e rilasciò-senza mai pronunciare più di 5 parole per risposta-una serie di interviste per la stampa e le tv locali.
I colleghi erano
intimoriti di fronte a lui, quasi come fosse un dirigente in ispezione tra
i subalterni; i superiori lo trattavano come un loro pari; i dirigenti non lo
deridevano. La vita di Masotti, in linea con il suo lavoro, non si era mai
spostata dal binario previsto: fidanzamento-matrimonio-figli. Tutto procedeva
diretto come un treno-perdonate la banalità della similitudine-verso la
pensione e il tanto meritato, e programmato, riposo. Una vita già scritta,
direbbe qualcuno. Ma mai prevedere il
futuro. Più lo si programma più quello scivola via verso destini beffardi e
meravigliosamente incomprensibili.
Quella mattina
Mosotti era già nella sua cabina di servizio, nemmeno a dirlo in anticipo
rispetto a tutti i suoi colleghi. Il treno era sempre lo stesso. Da città a
città, da una metropoli a un’altra, salendo o scendendo verso l’orizzonte.
Dritto sul sedile, concentrato sempre e solo sulla strada-nonostante si
potrebbe dire la sapesse più che a memoria-Mosotti pareva un cavallo a cui
fossero stati installati dei paraocchi neri, permanenti e dominatori. Era vietato rivolgergli la parola durante
il lavoro, e, nel malaugurato caso in cui qualche collega scambiasse
impressioni del tutto improvvise con qualche suo vicino, arrivava incombente
come un tuono il richiamo del macchinista.
Quella mattina, dicevamo,
Mosotti procedeva lungo i suoi binari, accompagnato dai suoi paraocchi
neri. Il viaggio era quasi a metà, la distanza percorsa sforava i 300 km; ne
mancavano altri 310 per giungere alla stazione d’arrivo (312km e 257 metri
avrebbe suggerito il macchinista) . La concentrazione, come al solito era
massima. Rallentare leggermente in curva, scaricare la potenza quando la
strada-ops, i binari- è dritta. Il lungo rettilineo, quello che attraversa i
gialli campi e le campagne tipiche del paesaggio di mezzo, era cominciato. Nulla potè impedirgli di vederla. Da
lontano pareva una foglia. Una foglia strana. Poi, avvicinandosi, l’effetto
della fata morgana si dissolveva sempre più, svelando qualcosa di vivo. La
foglia si muoveva. A tratti rimaneva immobile, poi ricominciava a mostrare le
ali. Le ali. Sì, era un uccello. No, non un uccello. Mosotti-con uno stupore
capace di smuovergli la faccia di gesso che era abituato tenere mentre era al
lavoro-si rese conto che su quel lungo rettilineo in aperta campagna, lì dove
il paesaggio avvolge i binari fino a cullarlo nella sua bellezza, quando la
velocità raggiungeva i 297km orari e la distanza percorsa si aggirava intorno
al 302 km, lì, su quel binario di un nero quasi morto, arroventato dal sole,
lì, su quel pezzo di ferro in mezzo alla natura, c’era una farfalla. Una farfalla. Bianca, macchiata di
colori rossi e gialli. Una farfalla meravigliosa. La mente del signor Mosotti
non riuscì a selezionare le azioni in modo razionale e ordinato. Quel che accadde, ancora oggi, non ha una
logica precisa.
Con una forza vettoriale
che superava tonnellate e tonnellate di trazione verso l’avanti, con un
rumore di ferraglia che svegliò gli animali nei campi vicini, con un movimento
deciso e fermo, il signor Mosotti frenò. E frenò così tanto da far accavallare
dietro di sé, come macchinine giocattolo, i vagoni che lo seguivano. Frenò
senza un messaggio di avviso ai viaggiatori, senza una comunicazione ai
colleghi che parlavano sottovoce alle sue spalle. Come nelle storie a lieto
fine, quell’ammasso di ferro si arrestò a pochi centimetri dall’animale. La farfalla, immobile, restò qualche
secondo ancora nel suo rifugio mortale, poi, leggiadra, volò via.
Il signor Mosotti non
ebbe mai una spiegazione valida per il suo comportamento. La compagnia
statale lo mise più volte sotto interrogatorio per notti intere, cambiando
psicologi e psichiatri, usando metodi ortodossi e non. Ma niente. Nemmeno il
licenziamento, prima usato come arma di ricatto, poi sviscerato davanti ai suoi
occhi come realtà indiscutibile, riuscirono a rianimarlo. La pensione, il
riposo, il futuro programmato; tutto deragliato in un attimo.
Da allora il signor
Mosotti vive in un manicomio. La moglie si è convinta di aver vissuto per
32 anni con un malato di mente, le figlie lo ignorano davanti agli amichetti, i
colleghi hanno preso la loro rivincita. Di notte, qualche volta, ripensa al
volo di quella farfalla bianca e meravigliosa, alla sua sinuosità perfetta,
alla sua calma. Rivede quello sbatter d’ali morbido e gentile, come se l’aria
fosse stata accarezzata placidamente, e sorride. Il signor Mosotti sogna. E, in cuor suo, nel più profondo dei
sentimenti, sa di aver amato, almeno per un attimo.
Raffaele Nappi
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