giovedì 13 ottobre 2011
Alla ricerca di un attimo di me
Per un volta vorrei essere io il centro e la periferia, vorrei non dare consigli, vorrei essere il punto di domanda principale. Per una volta non vorrei ascoltare pazientemente ma essere ascdoltato. Vorrei camminare liberamente, lentamente. Vorrei liberarmi da pensieri e preoccupazioni. Vorrei essere io la versione da sentire. Vorrei essere guardato non solo di sfuggita, vorrei rimanere fermo, imbarazzato, al centro della scena. Per una volta vorrei avere il riflettore puntato, la luce negli occhi. Per una volta non vorrei ridere garbatamente e voltare lo sguardo. Vorrei essere io. Senza ascoltare ridere guardare, senza mimare. Voglio essere il tuo centro. Vorrei. Vorrei essere nelle ue parole, vorrei sentirmi addosso i tuoi sguardi, vorrei essere seguito e non seguire. Non inseguire più. Ma forse mi piace
lunedì 10 ottobre 2011
Un cielo mischiato d'attimi
La luce è ancora fioca. Gli occhi si aprono. Solo per un istante. Guardo. Il cielo è ancora a metà: da un lato, la notte assassina e fredda, dall’altro l’avanzare dell’alba che fa a pugni con l’oscurità. È una sensazione meravigliosa. Un assemblamento di colori sfocati che mischia anime e sensazioni. Guardo con i miei occhi che solo un attimo prima dormivano impetuosamente. La nascita di un impulso li ha scossi violenti, li ha spinti ad aprirsi di colpo per ammirare il latte del cielo. Dopo quell’istante tutto si richiude, il corpo, la luce, l’anima. Resta solo un piccolo sorriso che mi dipinge involontariamente le labbra. Sarà che a far compagnia a quel cielo, oggi, c’eri anche tu al mio fianco.
mercoledì 5 ottobre 2011
Il cielo che ospita i miei respiri non è più lo stesso. Non è quello di sempre. L’azzurro si mischia ad una tinta invisibile che sa di ignoto, ma che mi sorride. La stanza sembrava aspettarmi da tempo. Le persone sono pezzi di puzzle incastonati a pennello. La preoccupazione, quella, è lontana. Forse sparita. Viene avanti una sensazione di potenza dettata dall’incoscienza, che si culla nella solitudine. La solitudine di guardare da solo un cielo notturno senza i soliti respiri codardi. La solitudine che in silenzio bacia i tuoi gesti senza giudicarli. La mia gioia, in questo preciso istante, sei tu. Come ogni pensiero che immediatamente lascia il nido della mente tu mi tocchi e fuggi via. Ma ritorni sorridente ad ogni istante. Tu sei la mia roccia e la mia pietra. Tu sei un’ala ed un soffio dolce… Come tutte le grandi gioie tu sei anche la mia preoccupazione più grande…
domenica 2 ottobre 2011
Una storia così
Il
treno era arrivato con i soliti 10 minuti di ritardo. La signorina Marie,
insieme alla sua collega Dora salivano con l’aria affaccendata, classica di
quelle donne in carriera che mostrano a tutto immondo il loro successo. Di
carriera, in verità, ce n’era ben poca. Una cattedra da insegnante in un
istituto a 150 chilometri da casa. E fu così che per la signorina Marie,
insieme alla sua collega Dora, il treno espresso per la capitale divenne
l’unico mezzo per raggiungere il lavoro, e d’altronde quello più economicamente
accettabile. Ogni giorno, le due signorine, impepate, lucidate a nuovo,
rosseggianti di mascara, percorrevano quegli scalini bucherellati per
raggiungere il posto più in vista, possibilmente il più regale. Dai loro sedili
in stoffa premurosamente coperti da fasci di seta (impossibile toccare quei
braccioli luridi, quei tessuti conduttori di batteri) impegolavano l’intero
vagone in storie assurde solo a pensarle. Fu così che, per 5 interi anni, ogni
santo giorno un vagone del treno espresso partito dalla più remota campagna per
raggiungere la capitale, riusciva a scoprire tutte le iniquità ed i segreti di
un piccolo istituto scolastico cittadino.
Proprio
5 anni prima era giunto sul suolo nazionale. Era Konè, nel suo villaggio, ma
qui tutti lo chiamavano Koko. La sua età si aggirava intorno ai 20 anni (in
realtà mai nessuno lo seppe con precisione) e sulla sua carta di
identificazione, semmai l’avesse avuta in una realtà remota, c’era impressa una
scritta buffa alla voce “segni particolari”. Konè, per tutti koko, era l’uomo
più timido della terra. Quando la mamma, semmai ne avesse avuta una in una
realtà remota, lo mandava a comperare un pezzo di pane, lui abbassava gli occhi
durante il tragitto, e spesso finiva per perdersi. Quando riusciva a
raggiungere il portone del panificio (che si trovava non più di 100 metri
distante dalla sua baracca) non aveva il coraggio di alzare gli occhi per
guardare in faccia la commessa, e non perché la figlia del panettiere fosse
un’amazzone meravigliosa. Il suo era un problema atavico. Sarà che quando
nacque con gli occhi chiusi tutti pensarono ad un figlio cadavere, e quando
sputò all’improvviso un pianto rauco tutti rimasero con gli occhi al di là
delle orbite. Konè, comunque, passò la sua infanzia con la testa abbassata,
tanto che i familiari si preoccuparono che qualcuno gli avesse rotto il collo
durante il parto. Il collo non era rotto, tantomento la sua anima così recline
a mostrare un’emozione. Da quando aveva deciso di partire per essere ricoperto
anch’esso dell’onore della famiglia erano passati 5 anni. Il suo viaggio era
verso il denaro, ma soprattutto verso quella rispettabilità che mai nessuno
aveva accostato alla sua persona. Quella mattina, anzi, quella notte, su quel
treno lui c’era salito prima della signorina Marie, e non era stata una scelta
volontaria. Non aveva avuto il coraggio di guardare gli orari, il tabellone era
invaso da turisti e viaggiatori, e lui, Konè, non riusciva a chiedere il
permesso di guardare senza sentirsi in colpa. Per la sua vita quello fu un
treno sbagliato.
Nico
era un ragazzino. Solo un ragazzino. Non era partito 5 anni prima da una terra
trapassata per raggiungere quella nazione. Lui, c’era nato e vissuto. Ma i suoi
12 anni spaventavano tutti, compresa la sua famiglia. Quella mente non poteva
dimostrare solamente i pensieri di un adolescente. I suoi giochi durante il
tempo libero erano anomali, e questa parola non riesce a trasmettere tutto il
senso dei suoi passatempi. L’armadio di Nico era stato sventrato sul fondo, per
far posto ad armi e corde. La sua non era una passione bellica, propria di
tutti i bambini, ma una mania schizofrenica. Gli scatti tormentavano le sue
giornate, i piani segreti impegnavano i suoi minuti. Il piano studiato per
l’anno dodicesimo rispecchiava quello che sul quaderno di Nico era chiamato “Il
compimento finale”. Tutti i suoi anomali pensieri si erano concentrati in un
punto, un buco nero che ingoiava la sua mente e i suoi progetti. Quell’anno, il
dodicesimo anno della vita segreta di Nico, la vittima sarebbe giunta a
compimento del suo programma di libertà. C’era bisogno di un agnello immolato
da sacrificare all’altare della fantasia, e per Nico non c’era scelta migliore
che la signorina Marie, la sua insegnante.
Quella
mattina la signorina Marie salì sul treno con la solita altezzosità. I quattro
vagoni incaricati di raggiungere la capitale erano solitamente pieni a tratti.
Le due insegnati, come da copione, scelsero lo scompartimento più occupato, per
esibire la loro vita perfetta al mondo. Stranamente l’intero vagone finale era
occupato; tutti i primi tre vagoni erano vuoti e le signorine dovettero
percorrere l’intera lunghezza del convoglio, non senza un senso di felicità per
l’occasione di una sfilata improvvisata. Giunsero così nella penultima
carrozza, dove, come in quelle precedenti, c’era solo il vuoto a farla da capo.
Oltrepassarono anche questa, ma i loro volti si oscurarono di un’espressione
orrenda e disgustata. Un gran puzzo di piscio opprimeva l’aria di quel vagone,
e nemmeno i finestroni spalancati oltremisura riuscivano a purificare l’aria.
Ecco spiegato il motivo di quella concentrazione anomala. Meglio raggiungere
subito l’ultima carrozza, ci sarà così l’occasione di mostrarsi di fronte ad un
pubblico ancora più ampio! La corsa verso la meta fu più buffa che efficace. Le
due signorine inciamparono in tutto quello che si intrometteva sulla loro
strada. Sembrava una scena di un film comico piuttosto che una fuga disperata
dall’inferno. La porta della libertà era vicina. Le due signorine però, prima
di versarsi a pieni polmoni nella carrozza del pubblico incontrarono sul loro
campo visivo una novità. Sembrava una pietra ma era un essere umano. Forse. La
figura cercò in un primo momento di nascondersi agli occhi imperanti delle due
signorine, chiudendo la testa sotto il maglione sfilacciato. Era una pietra, o
forse un uomo, umida e puzzolente. L’interesse suscitato dalla novità fece
largo subito dopo alla colpa. Le due signorine rivolsero immediatamente le
accuse più dure alla pietra maleodorante, e, nello spazio di pochi secondi (in
realtà un po’ troppi per delle insegnanti abituate agli esercizi con la
ragione) riuscirono a collegare la concentrazione anomala nel treno col puzzo
di piscio emanato dalla pietra. “Una cosa ignobile solo a raccontarla!”.
Konè
aveva preso il primo treno in stazione. Era notte, e i suoi occhi non
riuscivano a distinguere con esattezza le scritte dirette ai viaggiatori; e le
sue orecchie non potevano decifrare i messaggi dagli altoparlanti. I tabelloni,
poi, erano affollatissimi. Si intrufolò così in un vagone piccolo, dalle luci
spente, ma che portava ancora l’apertura delle porte manuale. Konè si fece
forza e riuscì ad aprire quel varco. All’interno sembrava essere solo. Tutte le
luci erano completamente spente e riusciva a vedere qualcosa che somigliasse ad
un corridoio solo grazie all’illuminazione nella stazione. Konè, per la prima
volta, abbandonò quel sentimento di timidezza che gli era entrato nella pelle.
Ora provava solo paura. Il terrore aumentò quando il treno cominciò a muoversi.
Sembrava solo in quel convoglio ma evidentemente non lo era. Un ragazzo
impaurito in un paese sconosciuto su un treno notturno. Vuoto. E senza sapere
la destinazione (come se bastasse a stare più sereni sapere dove fosse diretto)
. konè si rannicchiò in un angolo, la notte e l’oscurità invadevano tutto lo
spazio intorno, e solo qualche luce artificiale (sarà stata quella di un
lampione) si intrometteva a sprazzi nella sua battaglia con la paura. Su quella
culla che dondolava le lacrime si mischiarono al puzzo del proprio corpo che
non era riuscito a trattenere la timidezza.
Nico
si sentiva potente, quel giorno. L’insegnate Marie sembrava il diavolo in
persona. Non sapeva chi l’avesse resa così ma sarebbe stata sicuramente una
persona da elogiare per aver reso praticabile il suo piano. Nico disse alla
maestra di avere conati di vomito e si fece accompagnare in bagno
immediatamente. Il suo piano aveva raggiunto e superato la parte più difficile:
farsi accompagnare dalla signorina Marie nel bagno degli uomini. Le stanze
erano completamente deserte, come accadeva nelle ore iniziali delle lezioni; le
prime uscite erano permesse solo a partire da metà giornata. Una volta entrati
per Nico fu un gioco da ragazzi mettere in pratica un piano studiato da troppo
tempo per fallire. Il fazzoletto imbevuto di cloroformio sorprese l’insegnante,
che prima di addormentarsi definitivamente, mostrò quegli occhi sorpresi e
impauriti, forse a compimento di una giornata da dimenticare. Nico ebbe tutto
il tempo di addentare la corda nascosta nei pantaloni, scioglierla e legarla al
tubo di scarico dei bagni. Il bambino, senza troppi sforzi, adagiò la testa
addormentata della signorina Marie nel cappio, assicurandosi che i piedi
nascosti nei tacchi, non si poggiassero sulla tazze del water. Nico restò
immobile per qualche minuto, giusto il tempo di aspettare gli attimi necessari per
certificare la morte. La sua mente malata esultò commossa alla notizia che il
suo piano era giunto a compimento.
Quel
giorno Konè, un ragazzo di venti anni di nazionalità sconosciuta, forse
nordafricana, fu trovato impiccato ad un albero. Il suo corpo non presentava
segni di colluttazione. Era stato sicuramente un gesto volontario.
A
qualche chilometro di distanza la signorina Marie, insegnante in un istituto
della capitale, era stata trovata impiccata nel bagno della scuola. Sul suo
corpo non erano presenti segni di colluttazione. Era stato sicuramente un gesto
volontario.
Quelle
due anime, appese al filo del loro destino, ora dondolano nel vento. Una è
cullata dal pianto di familiari sconvolti fino alla disperazione. L’altra danza
nella solitudine e nell’oscurità. Il loro cammino s’è unito in un percorso
unico, che assomigliava ad una corda che non si è spezzata. Entrambe ora,
qualunque sia stato il loro destino, vagano verso una nuova meta. Ma nessuno sa
quale delle due abbia preso la strada giusta.
Raffaele Nappi
mercoledì 28 settembre 2011
Ciò che rimane di un vagabondo
Cosa accade quando la tempesta è passata? Ciò che rimane
somiglia ad un tramonto bagnato, che sa di sangue. Come si sente il vincitore a
fine battaglia? Forse la sua spada sta ancora arroventando il cuore del nemico,
ma il suo pensiero si allontana sulle ali, rimuginando desideri sdoganati. La tempesta
è passata, il guerriero ha vinto, ed allora, alla fine, cosa rimane? Rimani tu.
Rimane quella sensazione di pienezza che mi appaga le giornate. Rimane il
sorriso che non ho espresso e che mi fa star male. Rimangono tutti i miei
errori, da ricordare con elasticità estrema ancor più delle gioie. Rimane la
gioia di un percorso che mi ha trascinato in un vortice di affetto, che, senza
rendermene conto, ha sconvolto in ogni singola parte la mia vita. Ed allora
scuotimi, o vita, scuotimi ancora come foglie autunnali. Se tutto somiglierà a
questo viaggio sarò per sempre vagabondo.
lunedì 26 settembre 2011
Scherzi incrociati
Il signor
Morleo avevo impiegato tutta la vita per raggiungere l’obiettivo: diventare un
dottore. Quella riverenza, quella potenza che l’avrebbe circondato ad ogni suo
passo lo coccolava nei suoi pensieri meno leciti ma più agognati. Aveva
sacrificato tutta l’infanzia, per non parlare dell’adolescenza. Restava a casa
ogni qual volta c’era la possibilità di una passeggiata con un conoscente,
rapito dal raptus di conoscenza e dall’ardore di crescita. Doveva farcela. E ce
la fece. Ricorda come il secondo appena passato l’istante in cui fu nominato,
letteralmente, per la prima volta Dottore in Medicina e Ortopedia.
Dottore, finalmente. Dottore, dottore, dottore. Salve dottor Morleo! Salve a lei signora. Mi scusi dottor Morleo, non si preoccupi, non mi disturba signore.
La vita s’era livellata sul piano sequenziale degli eventi, senza scosse, senza ripensamenti.
Quel giorno, il dottor Morleo, stava visitando un vecchio orgoglioso, finito con il culo per terra a forza di camminare tra una stanza e l’altra senza l’aiuto, meschino, del bastone. Quel bastone era la sua vergogna, la testimonianza terrena del fallimento venuto in compagnia dell’età. L’orgoglio, solo quello rimaneva a colmare un corpo oramai tremolante e rugoso.
Quel giorno, quella visita fu più normale del solito. Un’operazione di routine, non troppo rischiosa. L’ennesima dimostrazione al mondo delle capacità di vittoria che la volontà può raggiungere. L’operazione arrivo, ed anche il successo scontato. Complimenti dottor Morleo, lei mi ha rassicurato! È stata una sciocchezza signora, è andato tutto per il meglio. I valori sono nella norma e, nel giro di qualche giorno, vostro marito potrà tornare finalmente a casa.
L’ennesima vittoria, l’ennesima consolazione riuscita. L’ennesima opera di bene. Sarà proprio il paradiso ad attendermi. Non potranno fare diversamente!
Il signor Diogene tornò a casa, addirittura un giorno prima dalla data prestabilita. Per lui tutto era diverso, ora che una lunga e lenta riparazione lo aspettava nel resto dei suoi piagnistei. Ora, oltre al bastone, ci sarebbe stata una orribile sedia a rotelle sotto il suo sedere appena calcificato. Una vergogna ancora più grande di quella precedente. La prima sera tutto trascorse nella norma. Solo un singhiozzo accennato, timido, sussurrava alla notte di trascorrere presto. Quel singhiozzo, non era di una donna.
Tutti i figli erano tornati da ogni angolo per sincerarsi delle condizioni del capofamiglia, e, la mattina seguente, la casa era piena di domande preoccupate. Come stai, come ti senti? Sono stato così in pensiero! Diogene voleva solo essere lasciato in pace, con la sua vergogna mischiata al dolore. Tutti i figli, decisero di rimanere per qualche giorno, prima di tornare agli angoli della terra. E per l’occasione la stessa sera si preparò una festa enorme per celebrare la guarigione del Papà. Solo a quel pensiero, il signor Diogene sentì tutto il suo orgoglio salirgli per la gola. La rabbia si concentrava nelle sue vene, mischiandosi al sangue oramai lento. Voleva solo stare in pace. E soprattutto, in silenzio. Silenzio.
La sera arrivò prima del previsto, e tutti i preparativi furono ultimati a tempo di record. Il signor Diogene però, accecato dalla rabbia o dalla paura, non riuscì a sollevarsi dal letto, rimanendo immobilizzato nella posizione meno signorile della storia. Era il punto limite. I figli, decisi oramai a non lasciare tutto intentato, si spostarono nella sala accanto e, sommessamente diedero inizio alla celebrazione. La benedizione arrivò dallo stesso signor Diogene, che, immediatamente dopo però, fu lasciato solo, all’oscurità nel suo letto, a favore dello spettacolo del secolo sulla tv.
Gli sguardi erano tutti rapiti da quelle immagini così immaginate da diventare reali per ognuno in maniera diversa. Tutti vedevano la propria realtà riflessa in uno schermo. Era semplicemente fantastico. Nessuno però si accorgeva che, contemporaneamente, un piccolo singhiozzo, simile a quello della notte precedente, si immergeva timidamente nel silenzio della stanza vuota e buia, all’altro lato della parete.
Quelle urla, quegli schiamazzi pieni di divertimento, avevano avvilito il capofamiglia. Il signor Diogene non riuscì a tollerare una vergogna simile,e, una volta che le feci bagnarono il suo letto, se ne andò in Paradiso o in un posto simile.
Le grida, solo 5 minuti dopo, si fecero ancora più forti, guidate dal terrore sovrano nelle menti dei figli. Un padre, completamente sulla via della guarigione, morto inspiegabilmente in un letto delicato nel momento del riposo. Era tutto senza spiegazione. Fu proprio il figlio più grande a balenare la prima idea di vendetta. Era proprio colpa del dottor Morleo, era solo questa l’unica spiegazione possibile. Ci doveva essere stato un errore durante l’operazione, nascosto da quel piccolo dottor così timido ma altrettanto attaccato alle guarigioni come vittorie.
Qualche notte dopo, solo qualche notte dopo, il dottor Morleo fu svegliato in sonno da una telefonata inaspettata…
Il processo fu breve e sensazionale. Ma come, proprio il dottor Morleo? Non ci credo! Era una così brava persona!
A non crederci fu lo stesso piccolo dottore, quando il giudice pronunciò le parole della sentenza.
Oggi, dopo 13
anni, c’è stato un decesso nel carcere della città. Un dottore, un piccolo
dottore di nome Morleo, è stato sopraffatto dalla malattia, o forse dalla
vecchiaia. Era una persona rispettabilissima, ma fu condannato all’ergastolo.
Dicono che non abbia mai tentato di ribellarsi a questa sentenza. Dicono che
non abbia mai proclamato la sua innocenza. Dicono che pochi istanti prima di
morire, abbia sussurrato al silenzio un singhiozzo timido e rassegnato.
mercoledì 21 settembre 2011
Non lasciarmi
Mi hanno tolto anche il sorriso, al di là di sfortune o fortune della vita. Non mi va, questa volta, neppure di muovere un muscolo della faccia, voglio mandarla senza tono davanti a tutti, non ce la faccio. Ho rovinato tutti, per colpa mia tutto s'è sfasciato, ma giuro che non volevo. Non mi dispiace per me, ma soprattutto per voi. Farei di tutto per vedervi sorridenti sinceramente. Io non conto, contate voi. Conti tu. E adesso, mi viene un'enorme paura di perderti, di non averti più vicino in questo momento così duro per me. Voglio averti vicino, voglio sapere che ci sei, solo a pensare mi sento vuoto e traballante. Scusami se non continuo. Nessuno mi capisce, spero che solo un po' tu lo faccia, perchè ora, solo tu, SOLO TU, puoi togliermi questa volto morto dalla faccia.
martedì 20 settembre 2011
NUVOLE AZZURRE
Oggi, quando ho levato il capo,
ho trovato un azzurro vero disegnato nei miei occhi. Non c’era da pensare
molto, era tutto lì, quello spettacolo inaspettato, ma forse dovuto. Ed allora
ho pensato a te, eterna certezza temporanea, che ti confondi in questo mare di
secondi con il vento che accompagna lo scorrere del tempo. Mi sono ricordato
dei tuoi sorrisi gentili, quelli superbi e quelli infantili. M’è tornato alla
mente un frammento di giorno vissuto, un attimo incastrato tra le rocce dell’infinito.
E t’ho trovato di fronte a me, ancora una volta, piena di quello sguardo
incantato, allucinante per un piccolo impiegato. Mi sono commosso al solo
pensiero di averti conquistato, senza lacrime di vergogna a far da contorno. Se
quest’azzurro veste magnificamente il cielo è colpa delle nuvole, che lo
rendono meraviglioso. Ed io mi specchio in questa tua meraviglia…
lunedì 19 settembre 2011
Odio le persone che si arrabbiano, che perdono la calma immediatamente senza dare la possibilità di controbattere un minimo ragionamento. Odio le feste, perchè non mi piace sorridere forzatamente davanti a tutti. Odio tutti quelli che si lamentano perchè la vita è troppo dura: FORSE NON HANNO MAI SAPUTO COS'è LA VITA PER QUELLI CHE DAVVERO NON HANNO FUTURO. Ho visto un bambino, oggi, che piangeva disperato. Più tardi, più lontano, ne ho visto un altro. Uno aveva perso un telefonino, l'altro aveva la gamba penzoloni, addentata da una mina puttana che si nascondeva sotto la merda di macerie. Vi odio inconsapevoli fortunati.
Corro agli assalti!
Ci sono, anche io. Ed allora corro agli assalti, unito in battaglia dalla forza che non mi sostiene, ma che cerco in ogni sguardo che ho intorno. Quanti leggeranno queste parole, pochi. Forse nessuno. Ma il cielo continua a premere sul suo interruttore, non si spegne. Ho una storia da raccontare. Mille, cento, o forse nessuna. Le scriverò appena mi verranno in mente, straziandomi il cervello di squarci di vergogna. Ed ora, visto che la vergogna è già venuta a farmi visita, devo inviare tutto, senza rileggere, e poi spegnere con brutale velocità tutto lo schermo. Il tempo è passato, forse troppo lento, nel momento di morire. Ed io Ti Amo.
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