domenica 12 gennaio 2014

L'anno in cui inventarono in teletrasporto


Lo inventarono, ma non si sa come. Non si sa chi. Cominciò tutto dal laboratorio dell'uomo, che si ritrovò da un momento all'altro a Mumbay. Chissà perché proprio a Mumbai nessuno potrebbe dirlo. Forse perché - quella stessa notte - aveva sognato l'alba al Sassoon Dock, quando pescatori variopinti e donne dall'animo inquieto si incontrano per smerciare pesce fresco.

L'uomo, in ogni caso, lo inventò. E fu proprio tra barche, bombil e pesciolini essiccati al sole che si ritrovò. Così, in un attimo. Il punto, una volta essersene reso conto, era capire come c'era riuscito. Fatto quello, il resto era solo ricchezza. L'uomo, immerso nell'alba, decise di pensarci a partire dal giorno successivo. Doveva prima ritornare dal posto in cui era partito, nel laboratorio di lavoro.

Quando anche il suo collega, l'unico che aveva voluto assistere alla presentazione della novità, si ritrovò nelSantuario Dom Bosco, tra un'esplosione di colore azzurro e lampadari enormi che sovrastano il cielo di Brasilia, allora sì, l'emozione fu grande. Signore e signori, il teletrasporto era stato inventato.

In pochi ci credettero all'inizio: in tanti lo consideravano solo un'attrazione pubblicitaria per qualche nuovo centro di ricerca. Dopo due mesi, però, cambiò tutto. Dopo quattro ancora peggio. Si andava e si veniva, con regolerità. Dopo un anno non ci fu nulla da fare. Gente che viaggiva a destra, gente che partiva a sinistra. Niente più aerei, niente più treni. Niente viaggi lunghi e costosi. Niente partenze con addii alle stazioni, niente abbracci melanconici.

Il teletrasporto, insomma, aveva cambiato le vite. Di tutti. I ragazzi si amavano in un abbraccio, le distanze si annullarono. Solo in una remota zona del mondo, le cose furono diverse. Talmente diverse da provocare rivoluzioni.

Capitò, infatti, che il miliardo di cinesi si riversò in america. Gli indiani, poi, se ne andarono in Europa. I canadesi in Sudafrica, gli italiani in Germania, i giapponesi in Corea. Tutti andavano dappertutto.

E gli africani? Quelli, però, rimasero soli. Il loro legame con la terra era talmente forte che l'abbandono era considerato un tradimento. Se ne restarono lì, con i loro riti e le loro tribù, soli nel mondo. Ogni tanto, qualche americano veniva a trovarli: si rilassavano insieme, ballando davanti al fuoco. Ma non se ne andarono. No. E proprio per questo, duecento anni dopo, diventarono il continente più ricco del pianeta.

RN

domenica 20 gennaio 2013

"L'ho lasciato vincere"



E chi ti scorda. Estate, 13 luglio 2000. Milioni di italiani attaccati al televisore, a seguire le discese ardite e le risalite di un Pirata che sfidava il cowboy. Dopato.

Il Mont Ventoux, quel pomeriggio, era infuocato. Marco scattava ad ogni chilometro, e ad ogni chilometro qualcuno si staccava. Il cowboy, dopato, se ne stava nel gruppetto, appeso alla sua maglia gialla, sporca di baro. Poi, arriva anche lo scatto suo, del dopato. Affianca il Pirata, in una splendida maglia rosa, pulita, e gli scatta ancora, in faccia. Il Pirata resiste. Gimondi, alla telecronaca su Rai Tre, sembra scoraggiato. “Marco fa bene a lasciarlo andare, Armstrong è più forte, va bene così”. Ma il Pirata non ci sta. Resiste, scatta ancora. Riprende la ruota che ha di fronte alla sua. È ancora lì. Attaccato al cowboy. La vetta si avvicina; i due sono appaiati. Il cowboy fa uno di quegli scatti che ti mozzano le gambe; la telecamera si appiattisce e non riesce a trasmettere fino in fondo lo sforzo del Pirata. Sì, perché Marco resiste ancora una volta. E torna sotto. E taglia il traguardo davanti.
Ecco, se la vita ha un senso ce ne deve essere uno anche dopo, quando le cose sono già finite. Il Mont Ventoux, quel pomeriggio d’estate, ospitò una delle pagine più belle e tristi del ciclismo moderno: a sfidarsi un campione solitario, e un dopato superstar. 

Non è giusto, e non era giusto nemmeno allora. E se la forza delle parole riuscirà a raggiungerti, Marco, apri bene le orecchie: sì, perché è rimasto troppo impresso per essere scordato. Il traguardo tagliato senza alzare le mani verso il cielo, con Bulbarelli che commentava “un grande gesto di un grande campione”. Campione a chi, Marco? Al cowboy? Al dopato? Al più grande imbroglione della storia sportiva di tutti i tempi?! 

Forse non ha senso commentare oggi quella tappa, ma forse sì. E allora, quella vittoria, rimane scolpita ancora di più nei nostri ricordi. 

L’ho lasciato vincere” commentò il cowboy…, sì, Marco, ti ha lasciato vincere. Ci crediamo come lo scoglio che argina il mare. Continua a scendere a uovo, continua a scattare con le mani basse in salita, togliti la bandana e alza le braccia al cielo. Quella vittoria, quel 13 luglio 2000, è tutta tua. Campione.

Raffaele Nappi

lunedì 10 dicembre 2012

APU, Licenza di Non uccidere. Versione integrale



In macchina la musica andava a palla. Rimbombava verso i finestrini chiusi per colpa della pioggia, e se ne ritornava dritta nelle orecchie dei 4. Il guidatore muoveva le spalle, quasi come se fosse sulla bici; voleva accompagnare con i muscoli la guida spericolata. Alla sua destra, il ragazzo che faceva da leader, anche se tutti già sapevano dove andare. L’avevano studiato da mesi. Da settimane. Da giorni. I due dietro si sballottolavano, prima di essere ripresi. Questa volta definitivamente. “Basta”. Nessuno parlo più.

Ora si procedeva in silenzio. La macchina rallentò, era oramai notte. La luce arancione dei lampioni rendeva la cosa ancora più difficile. Le gomme rotolavano lente sulle pietruzzole della via. Poi, un’accelerata decisa. In due scesero, già pronti con le armi in mano. E via. 14 colpi, di cui una buona parte al volto. In faccia. Uno sputo a terra e poi via, di nuovo in macchina, questa volta accelerando al massimo. Silenzio ancora per poco. Qualche chilometro più in là ecco di nuovo la musica alta, e poi a casa la festa, le donne, la coca. Missione compiuta.

E il giorno dopo? Beh, la città si risvegliò nella solita indignazione, che colpiva tutti e non colpiva nessuno. Un sottile strato di vergogna aleggiava nei discorsi al bar, ma tutto si fermava lì. Non bisognava mai andare oltre nelle conversazioni. Mai sballare con la bocca.

Ho avuto un’idea. Ti devo parlare. Vieni subito da me. Ti aspetto tra 10 minuti”. L’uomo riattaccò. Poi, dopo pochi secondi, ripeté la stessa telefonata, le stesse parole. Senza dare spiegazioni a nessuno. Il buon senso ci dice che gli interlocutori dell’uomo sconosciuto fossero amici, parenti, qualche collaboratore. Non ci inganniamo, infatti, guardando, ora, il suo studio d’ufficio pieno di omoni indaffarati, un po’ stupiti. Il fumo galleggiava a nuvole all’interno del salone arredato in stile prettamente barocco. Il gruppo, formato anche da qualche donna, non superava le 30 persone. Il brusio iniziale fu interrotto dalle parole decise del padrone di casa, che solo dopo scopriremo essere un pezzo grosso dell’economia della città. 

“Ebbene, miei cari signori, vi ho invitato qui in modo un po’ brusco, lo ammetto, ma penso ci siano dei provvedimenti urgenti da prendere dopo quello che è successo. Come uomo libero e come cittadino perbene mi sento in dovere di dire basta. La nostra città ha versato già troppo sangue, troppe giovani e innocenti vite sono state stroncate da pallottole fumanti e assassine, troppi i sogni ammazzati nel loro germogliare. Sono stanco. E lo siete anche voi. Proprio per questo vi ho convocati qui”. Il brusio, mai spento, era stato sostituito, ora, da una mischia di sguardi reciproci. Tutti guardavano tutti. Alcuni sorpresi, altri impauriti, altri solo curiosi di vedere fin dove si poteva arrivare.

L’uomo riprese la parola. “Ho avuto l’accortezza di non invitare nessun esponente della polizia cittadina, per evitare inutili incomprensioni. Ora, se mi date solo pochi minuti della vostra attenzione, vorrei spiegarvi in linea di massima il mio piano. È arrivato il momento di dire basta”.

La seduta, se così la vogliamo chiamare, fu sciolta 7 ore dopo. Le segretarie dell’ufficio si erano guardate ripetutamente negli occhi, chiedendosi cosa mai stesse accadendo in quello studio con 30 persone. All’uscita, salutarono come da prassi gli invitati e li accompagnarono regolarmente alla porta. Il capo, quella sera, le lasciò uscire qualche ora prima. Era spossato.

La riunione aveva dato i suoi frutti. Non era stato facile convincere tutte quelle persone, ma, alla fine, un accordo di massima s’era raggiunto. Fu proprio il giorno successivo, appena l’alba diede scacco alla notte, che l’uomo decise di agire. Si recò prima all’Ufficio Tributi, poi alla Sede Nazionale della Banca. Aveva con sé un libretto di assegni, pronto da compilare. L’ultima tappa fu l’Ufficio Nazionale Registrazioni Aziende. Ecco. Il guaio era fatto.
 
In una notte l’idea era diventata realtà, o potremmo dire azienda. L’uomo si accese un’altra sigaretta, rimanendo fermo, con gli occhi spenti nel pensiero. Il giro di telefonate, questa volta, fu affidato alle segretarie. “E’ tutto fatto” – ripetevano in coro alle 30 persone che avevano partecipato al consiglio di ieri nello studio del capo.

Nei primi 6 mesi l’azienda non fatturò più di 10mila euro. Praticamente nulla. Ma l’uomo non si diede per vinto. Quello che serviva, ecco, era solo un po’ di pubblicità. Peccato, che nessuno, e ripetiamo nessuno, si era degnato di accettare le loro offerte, seppur la paga fosse ben al di là delle aspettative del mercato. Fatto sta che i pubblicitari non accettavano di reclamare quell’azienda. Preferivano continuare a parlare dell’acqua minerale, dei panettoni, delle ecodosi per lavatrici. Solo la parrocchia della città, nel suo piccolo, appese un manifesto all’entrata, non troppo in evidenza naturalmente. I fedeli, per lo più vecchi decrepiti e signore cieche, non riuscivano nemmeno a leggere quel pezzo di muro con sopra incollato chissà cosa.

L’uomo, allora, decise di investire tutto quello che restava del suo patrimonio per giocarsi l’ultima carta: il giornale della città. Ecco, un giornale, non può rifiutare di concedere uno spazio a pagamento, soprattutto se si parla di 150mila euro per pagina. E così, in stampa, ci andò un bel pezzo di Speranza.

Fu così che il giorno dopo i lettori delle “Cronache Cittadine” lessero a caratteri cubitali una scritta nel bel mezzo del giornale: due pagine su cui campeggiava il nome APU-Alleati Per NON Uccidere. Lo slogan, che i pubblicitari nel loro gergo erano soliti chiamare Headline, Claim, Pay-off si componeva anche di una parte scritta sottostante, comunemente detta body-copy. Sullo sfondo bianco si leggeva con chiarezza: “La prima azienda al mondo che ti paga per NON fare qualcosa. È un’idea che può cambiare il mondo. Tu, anziano vendicatore, rivolgiti a noi. Tu, uomo di mezza età che ha problemi con la moglie, parla con i nostri esperti. Ma soprattutto tu, giovane ventenne senza lavoro, vieni a trovarci. Ti daremo una possibilità unica per cambiare la tua vita. E non scherziamo”.

Furono i vecchietti i primi a leggere questo annuncio. Come da prassi, i giovani non andavano alle edicole per comprare i giornali, al massimo qualche rivista di fumetti. Ma, come si suol dire, la pubblicità fece centro. Eccome. Il brusio, quello che si diffondeva in città dopo gli omicidi, questa volta nacque spontaneo, raggiunse le mamme fuori le scuole, i padri in ufficio durante le pause-caffè, i maestri cominciarono a discuterne durante i consigli d’istituto. Toccava solo a loro. I giovani.
E fu quasi per caso, come spesso vuole il destino, che la pubblicità raggiunse la nuova generazione. Il sedicenne aiutante del meccanico, infatti, aveva bisogno – guarda un po’ il caso che ti combina – proprio di un giornale per stendersi a terra ed evitare di macchiarsi la tuta d’olio (per la cronaca già sporca).  Prima di buttarsi a terra la sua mente fu catturata da quel NON. Diciamocelo: prima di tutto perché era scritto tutto maiuscolo, poi perché si trattava di ricevere soldi per NON fare qualcosa. Alla parola soldi, infatti, il suo cervello andò in ebollizione, e il giovane apprendista decise subito di parlarne con i suoi amici. Chi elettricista, chi falegname, chi aiutante-cuoco, chi cameriere. Nel gruppo, però, c’era anche un ragazzo che non lavorava. Eppure, prendeva soldi lo stesso. Aveva una grande macchina sportiva, che gli era stata comprata appena un anno prima, e già parlava della prossima conquista: un’Alfa Romeo Gran Turismo, obbligatoriamente Sport. Lui, problemi di soldi non ne aveva, anzi: si poteva tranquillamente dire che era un ragazzo per bene. Un tipo che metteva l’onore al primo posto. Un “Don”.

La discussione nel gruppo fu animata, ma non andò mai oltre semplici sguardi disapprovanti. Avevano idee e posizioni diverse, diciamocelo chiaramente: da una parte il giovane meccanico, che stentava la vita lavorando dall’alba fino a sera. Dall’altra il palo, il giovane pusher con la mania per la droga e una posizione che si rispetti nel clan per ragazzi della sua età. Ebbene, il giovane meccanico decise di andare lo stesso negli studi dell’APU. 

Il palazzo di vetro rifletteva il cielo a pezzi. Le nuvole scappavano svelte dagli specchi degli uffici. Le segretarie, forse non abituate ad un cliente così giovane, furono a dir poco sorprese. Contattarono immediatamente il direttore. Sapevano che, quella, era la loro grande occasione. E così fu. Il giovane meccanico fu ricevuto nell’ufficio del direttore dopo appena 7 minuti di attesa. Il tempo di fumarsi una sigaretta e tutto era cambiato. Il patto, in sostanza, era chiaro: ricevere un assegno mensile in cambio di lealtà, legalità, collaborazione. Il pagamento veniva immediatamente sospeso nel caso in cui il cliente si fosse fatto coinvolgere in episodi ambigui, con annessa e immediata denuncia alla polizia. Un patto tra uomini, senza se e senza ma.

Il giovane meccanico, quella sera, tornò a casa col sorriso sulle labbra. In realtà non aveva niente di cui vantarsi, perché lui, la legalità, la seguiva anche senza ricevere premi a fine mese. Quei soldi, però, potevano aiutare, eccome. La sorellina, affetta da sindrome di Down, veniva sistematicamente accusata a scuola durante le ore di lezione. Con quel denaro sarebbe andata ad una scuola privata, e non avrebbe più pianto di notte, sotto le coperte.

La madre del giovane meccanico rimase sconvolta più che sorpresa. Non accettava quella soluzione. Anzi; pensava fosse proprio l’ultima invenzione delle società criminali. Fatto sta che, come una lenta e inesorabile onda che percorre le coste dell’oceano, l’APU giunse ad ospitare nuovi e nuovi clienti, tutti perlopiù ragazzi.

A garantire quella scelta non era la legalità, ma i soldi. Tanti giovani vedevano nell’APU una soluzione concreta alla disoccupazione, e per una buona causa poi. L’azienda crebbe fino a raggiungere dimensioni importanti. L’offerta si variegò in corsi professionali da garantire ai ragazzi, per tenerli occupati durante il mese di legalità. Fu lo stesso direttore a capire che, senza niente da fare, l’uomo tende a cacciarsi nei guai. È legge.

Nel frattempo anche la criminalità studiava le sue mosse. E, nel giro di qualche mese, sfoderò la sua carta vincente. Niente di più e niente di meglio di quello che riuscivano a pensare le loro menti ardite. A essere colpito fu il direttore: 14 colpi in faccia, ancora una volta. Lo sputo a terra e poi via. Ma la vittoria si tramutò in amara sconfitta. Il dio denaro, al servizio del direttore, era riuscito a scardinare i pensieri ortodossi della città. Vecchi, lavoratori e, infine, ragazzi, avevano aderito al pensiero vincente dell’APU. Fu così che, quella pozza di sangue ritratta sui giornali diventò simbolo di eterna sconfitta della criminalità organizzata.

In un primo periodo boss e affiliati cominciarono a spararsi a vicenda. Poi, persero anche la voglia di farlo. La città pensava ad altro. I soldi per la cocaina non rappresentavano più le principali fonti di reddito. In città si frequentava il palazzo dell’APU, si studiava ai corsi professionali, si imparava il mestiere. 

Millenni di criminalità furono battuti dall’idea di un secondo. ALLEATI PER NON UCCIDERE diventò un’azienda riconosciuta dallo Stato, con partecipazione istituzionale fino al 45 %. Anche la polizia, una volta scoperto il meccanismo, collaborò fattivamente al processo. 

La Città del Sole tornò a splendere. Come una volta.

Dedicato a Lino Romano. Non sei morto invano.
 
Raffaele Nappi

giovedì 1 novembre 2012

APU: Licenza di NON uccidere -PRIMA PARTE



In macchina la musica andava a palla. Rimbombava verso i finestrini chiusi per colpa della pioggia, e se ne ritornava dritta nelle orecchie dei 4. Il guidatore muoveva le spalle, quasi come se fosse sulla bici; voleva accompagnare con i muscoli la guida spericolata. Alla sua destra, il ragazzo che faceva da leader, anche se tutti già sapevano dove andare. L’avevano studiato da mesi. Da settimane. Da giorni. I due dietro si sballottolavano, prima di essere ripresi. Questa volta definitivamente. “Basta”. Nessuno parlo più.
Ora si procedeva in silenzio. La macchina rallentò, era oramai notte. La luce arancione dei lampioni rendeva la cosa ancora più difficile. Le gomme rotolavano lente sulle pietruzzole della via. Poi, un’accelerata decisa. In due scesero, già pronti con le armi in mano. E via. 14 colpi, di cui una buona parte al volto. In faccia. Uno sputo a terra e poi via, di nuovo in macchina, questa volta accelerando al massimo. Silenzio ancora per poco. Qualche chilometro più in là ecco di nuovo la musica alta, e poi a casa la festa, le donne, la cocaina. Missione compiuta.

E il giorno dopo? Beh, la città si risvegliò nella solita indignazione, che colpiva tutti e non colpiva nessuno. Un sottile strato di vergogna aleggiava nei discorsi al bar, ma tutto si fermava lì. Non bisognava mai andare oltre nelle conversazioni. Mai sballare con la bocca.
Ho avuto un’idea. Ti devo parlare. Vieni subito da me. Ti aspetto tra 10 minuti”. L’uomo riattaccò. Poi, dopo pochi secondi, ripeté la stessa telefonata, le stesse parole. Senza dare spiegazioni a nessuno. Il buon senso ci dice che gli interlocutori dell’uomo sconosciuto fossero amici, parenti, qualche collaboratore. Non ci inganniamo, infatti, guardando, ora, il suo studio d’ufficio pieno di omoni indaffarati, un po’ stupiti. Il fumo galleggiava a nuvole all’interno del salone arredato in stile prettamente barocco. Il gruppo, formato anche da qualche donna, non superava le 30 persone. Il brusio iniziale fu interrotto dalle parole decise del padrone di casa, che solo dopo scopriremo essere un pezzo grosso dell’economia della città.
“Ebbene, miei cari signori, vi ho invitato qui in modo un po’ brusco, lo ammetto, ma penso ci siano dei provvedimenti urgenti da prendere dopo quello che è successo. Come uomo libero e come cittadino perbene mi sento in dovere di dire basta. La nostra città ha versato già troppo sangue, troppe giovani e innocenti vite sono state stroncate da pallottole fumanti e assassine, troppi i sogni ammazzati nel loro germogliare. Sono stanco. E lo siete anche voi. Proprio per questo vi ho convocati qui”. Il brusio, mai spento, era stato sostituito, ora, da una mischia di sguardi reciproci. Tutti guardavano tutti. Alcuni sorpresi, altri impauriti, altri solo curiosi di vedere fin dove si poteva arrivare.

L’uomo riprese la parola. “Ho avuto l’accortezza di non invitare nessun esponente della polizia cittadina, per evitare inutili incomprensioni. Ora, se mi date solo pochi minuti della vostra attenzione, vorrei spiegarvi in linea di massima il mio piano. È arrivato il momento di dire basta”.
La seduta, se così la vogliamo chiamare, fu sciolta 7 ore dopo. Le segretarie dell’ufficio si erano guardate ripetutamente negli occhi, chiedendosi cosa mai stesse accadendo in quello studio con 30 persone. All’uscita, salutarono come da prassi gli invitati e li accompagnarono regolarmente alla porta. Il capo, quella sera, le lasciò uscire qualche ora prima. Era spossato.

La riunione aveva dato i suoi frutti. Non era stato facile convincere tutte quelle persone, ma, alla fine, un accordo di massima s’era raggiunto. Fu proprio il giorno successivo, appena l’alba diede scacco alla notte, che l’uomo decise di agire. Si recò prima all’Ufficio Tributi, poi alla Sede Nazionale della Banca. Aveva con sé un libretto di assegni, pronto da compilare. L’ultima tappa fu l’Ufficio Nazionale Registrazioni Aziende. Ecco. Il guaio era fatto.
 
In una notte l’idea era diventata realtà, o potremmo dire azienda. L’uomo si accese un’altra sigaretta, rimanendo fermo, con gli occhi spenti nel pensiero. Il giro di telefonate, questa volta, fu affidato alle segretarie. “E’ tutto fatto” – ripetevano in coro alle 30 persone che avevano partecipato al consiglio di ieri nello studio del capo.

Nei primi 6 mesi l’azienda non fatturò più di 10mila euro. Praticamente nulla. Ma l’uomo non si diede per vinto. Quello che serviva, ecco, era solo un po’ di pubblicità. Peccato, che nessuno, e ripetiamo nessuno, si era degnato di accettare le loro offerte, seppur la paga fosse ben al di là delle aspettative del mercato. Fatto sta che i pubblicitari non accettavano di reclamare quell’azienda. Preferivano continuare a parlare dell’acqua minerale, dei panettoni, delle ecodosi per lavatrici. Solo la parrocchia della città, nel suo piccolo, appese un manifesto all’entrata, non troppo in evidenza naturalmente. I fedeli, per lo più vecchi decrepiti e signore cieche, non riuscivano nemmeno a leggere quel pezzo di muro con sopra incollato chissà cosa.
L’uomo, allora, decise di investire tutto quello che restava del suo patrimonio per giocarsi l’ultima carta: il giornale della città. Ecco, un giornale, non può rifiutare di concedere uno spazio a pagamento, soprattutto se si parla di 150mila euro per pagina. E così, in stampa, ci andò un bel pezzo di Speranza.

Fu così che il giorno dopo i soliti affezionati delle “Cronache Cittadine” lessero a caratteri cubitali una scritta nel bel mezzo del giornale: due pagine su cui campava il nome APU-Alleati Per NON Uccidere. Lo slogan, che i pubblicitari nel loro gergo erano soliti chiamare Headline, Claim, Pay-off si componeva anche di una parte scritta sottostante, comunemente detta body-copy. Sullo sfondo bianco si leggeva con chiarezza: “La prima azienda al mondo che ti paga per NON fare qualcosa. È un’idea che può cambiare il mondo. Tu, anziano vendicatore, rivolgiti a noi. Tu, uomo di mezza età che ha problemi con la moglie, parla con i nostri esperti. Ma soprattutto tu, giovane ventenne senza lavoro, vieni a trovarci. Ti daremo una possibilità unica per cambiare la tua vita. E non scherziamo”.

Furono i vecchietti i primi a leggere questo annuncio. Come da prassi, i giovani non andavano alle edicole per comprare i giornali, al massimo qualche rivista di fumetti. Ma, come si suol dire, la pubblicità fece centro. Eccome. Il brusio, quello che si diffondeva in città dopo gli omicidi, questa volta nacque spontaneo, raggiunse le mamme fuori le scuole, i padri in ufficio durante le pause-caffè, i maestri cominciarono a discuterne durante i consigli d’istituto. Toccava solo a loro. I giovani.

E fu quasi per caso, come spesso vuole il destino, che la pubblicità raggiunse la nuova generazione. Il sedicenne aiutante del meccanico, infatti, aveva bisogno – guarda un po’ il caso che ti combina – proprio di un giornale per stendersi a terra ed evitare di macchiarsi la tuta d’olio (per la cronaca già sporca).  Prima di buttarsi a terra la sua mente fu catturata da quel NON. Diciamocelo: prima di tutto perché era scritto tutto maiuscolo, poi perché si trattava di ricevere soldi per NON fare qualcosa. Alla parola soldi, infatti, il suo cervello andò in ebollizione, e il giovane apprendista decise subito di parlarne con i suoi amici. Chi elettricista, chi falegname, chi aiutante-cuoco, chi cameriere. Nel gruppo, però, c’era anche un ragazzo che non lavorava. Eppure, prendeva soldi lo stesso. Aveva una grande macchina sportiva, che gli era stata comprata appena un anno prima, e già parlava della prossima conquista: un’Alfa Romeo Gran Turismo, obbligatoriamente Sport. Lui, problemi di soldi non ne aveva, anzi: si poteva tranquillamente dire che era un ragazzo per bene. Un tipo che metteva l’onore al primo posto. Un “Don”.

FINE PRIMA PARTE

Raffaele Nappi

mercoledì 10 ottobre 2012

Il tempo zero



La testa era già nel casco. Il mondo era diventato ovattato, buio. Gli uomini gli giravano intorno come formiche indaffarate, sempre alla ricerca di un motivo per non restare fermi. Qualcuno spazzolava per terra, qualche altro scrutava fili elettrici disegnati su uno schermo. C’era chi teneva delle coperte sulle gomme e c’era chi studiava strategie per il giorno successivo. Era sabato. 

Le prestazioni non erano andata poi così male. Quel tempone non c’era stato, ma, complessivamente, diciamo che le cose sembravano mettersi per il meglio in vista della gara. Durante le prove precedenti, mentre gli altri strombazzavano per la pista in cerca del record da agguantare e battere, lui, insieme alla sua macchina, se n’era stato lì, al caldo del suo sediolino, cullato per le valli belghe dalla forza motrice. La macchina aveva risposto bene alla simulazione di gara. Okkei, niente tempo da qualifica, ma la gara, quella, nessuna ce la toglie. Abbiamo il passo. Non il passo più lungo della gamba, il passo gara.

Il sabato si profilava, quindi, come una giornata di sofferenza, sebbene il paragone appaia un po’ troppo forte in termini umani. Sofferenza sportiva, si intende. Ci si difende il sabato per attaccare la domenica. Ci si nasconde dietro quei maniacali piani di guerra che sono le strategie di gara. Basta una sosta in meno e bam, eccoti davanti a tutti a lottare per non farti finire le gomme.

Negli ultimi anni le regole erano cambiate. In nome dello spettacolo, ovviamente. E in nome degli sponsor, logicamente. Non più un sola sessione di 60 minuti - scusate le tante esse che si ripetono – ma 3 da 15 minuti l’una. Solo l’ultima, come da battaglia finale, durava 10 minuti. Una bella sgranellata verso la griglia di partenza definitiva.

Quel sabato, nessuno si ricorda il giorno preciso, né l’orario in cui accadde – per i motivi che presto vedremo – le macchine erano tutte pronte nelle loro culle, comunemente chiamate box, così all’inglese, tanto per fare un po’ di globalizzazione linguistica.
Allo scattare del semaforo verde, ebbene sì, c’è un semaforo verde ed uno rosso anche nelle gare automobilistiche!, tutte le vetture pian piano sgusciarono timidamente. Le si poteva osservare mentre, come da perfette ubriache, dondolavano nei rettilinei, acceleravano e frenavano inspiegabilmente. Qualcuno diceva che era per riscaldare le gomme. Fatto sta che i piloti, in quel giro “ di ricognizione” si divertivano da matti. E vai col zig zag!

Fu la vettura gialla a partire per prima, seguita da una completamente arancione. Di solito erano quelle più lente a marcare i primi tempi. Ecco. Siamo giunti al punto. Ma quali tempi! Il cronometro generale, quello della pista, quello che marca il giro di una vettura come se fosse un cartellino, quello che timbra il millesimo, quello che ferma il centesimo, quello che interrompe il normale scorrere della clessidra. Ecco. Insomma, il cronometro era guasto. 

Fu la prima macchina ad accorgersene. Gli strateghi aspettavano ansiosi un tempo con cui confrontare i dati, per analizzare le prestazioni e cercare soluzioni. Ma nulla. Al primo settore ci fu uno strepitoso 00’00’’00’’’ che mai avrebbe convinto nessuno. Non si poteva percorrere nemmeno un metro in quella frazione di tempo. Tutti lo sanno. Sembra che anche Zenone se ne sia convinto.
Eppure, anche il secondo intermedio finì uguale. E così il giro. Un giro in 00’00’’00’’’, altro che record della pista. Il massimo di tutti i tempi. Ok, la prima macchina può passare. Ma la seconda no. E invece, smentite tutte le aspettative, il cronometro non diede alcun segnale. Zero. 0. Zero spaccato.

I piloti rientrarono nei box, abbastanza straniati. Gli altri, quelli che aspettano l’ultimo attimo possibile prima di fare il proprio tentativo, se ne restarono nella loro culla. Fermi. Poi uscirono dall’abitacolo, con la faccia un po’ intontita.

Ok. Un problema al cronometro di sabato può capitare. E allora che si fa? Come la mettiamo con la griglia di partenza? La Federazione intervenne subito scusandosi con gli spettatori presenti, evviva l’ipocrisia, e piangendo in ginocchio davanti agli sponsor. Il comunicato parlava chiaro. La griglia di partenza avrebbe rispettato il punteggio del campionato mondiale. Tutto qui. Deciso. Punto.

La domenica nacque con il cuore in gola. Gli spettatori arrivarono con calma, mossi da un sentimento di curiosità morbosa. I piloti seguirono tutte le procedure; la sessione mattutina fu annullata. Se il cronometro avesse dato problemi già alle 9, nessuno si sarebbe collegato alle 2 vicino al maledetto schermo. 

L’attesa era grande. Così come il silenzio, profondo. Le macchine si schierarono candidamente lungo la pista. Il giro di ricognizione passò liscio, tanto mica serviva cronometrare il tutto. Le macchine, dopo il loro irrinunciabile zig zag, si infilarono dolcemente nelle caselle assegnate. Ecco. Il momento arrivò.
 
Il semaforo rosso si accese, e poi quello vicino. Si accesero tutti e poi il vuoto. Si spensero come se fossero morti. Fu strano vedere come il vuoto dava vita ad una battaglia. 

Il cronometro, quello, rimase impalato. Nessuno riuscì mai a spiegarselo. Sempre fermo su quel temo. 00’00’’00’’’. Nemmeno un millesimo di più. 

La Federazione, disperata, decise di far continuare la gara. E così fu anche per quelle successive. Il cronometro era scomparso in tutto il mondo, mica solo in Belgio. E così, gli spettatori si divertivano immensamente a seguire le rimonte “a vista d’occhio”, le battaglie non si combattevano più sul filo dei millesimi. La gara la vinceva chi arrivava primo, chi per primo tagliava il traguardo. Niente più record, niente più prove. Il sabato diventò giorno di festa, in cui i piloti tutti si sbizzarrivano con i loro zig zag lungo la pista. Qualcuno non riuscì a trattenersi ed uscì dall’abitacolo con la tuta bagnata proprio lì. L’avete capito, si scompisciavano dal ridere. Per davvero.

Il pubblico accorse in massa, si innamorò come una seconda volta. Gli spettatori non guardavano più al millesimo ma alla bellezza della macchina. Gli appassionati non vedevano l’ora di arrivare al circuito. E specialmente di sabato. Le gare tornarono ad essere divertenti, gli strateghi non avevano più dati, i sorpassi si sfornavano come panini.

Nessun record fu più battuto. Nessun best lap. Ma il divertimento ci fu lo stesso. Anzi.

Raffaele Nappi